Patrizia Sardisco su Xe sta trovarse

 
 
da Un Posto di Vacanze
 
 

In un recente intervento radiofonico, presentando il dramma in dialetto friulano I Turcs tal Friùl, scritto da Pier Paolo Pasolini nel 1944 ed edito in questi giorni da Quodlibet nella nuova collana Ardilut curata da Giorgio Agamben, con una traduzione in versi in italiano del bravo Ivan Crico, il critico e semiologo Luigi Tassoni ricorda, tra le altre cose, come il grande autore delle Poesie a Casarsa “riconosce nel dialetto la possibilità di ritrovare una identità più vicina a un senso originario dell’uomo, e cioè non corrotto dalla Storia o dal cosiddetto progresso consumistico”. Ritornare su queste posizioni di Pasolini è stato per me lume e bussola nel precisare meglio le diverse, suggestive inquietudini che Xe sta trovarse, l’ultimo libro di Francesco Sassetto, edito dai tipi di Samuele Editore nella collana Scilla, mi aveva regalato e che continuavano a riproporsi con pulsante magnetismo alla mia attenzione di lettrice lenta e ruminante.
Da tempo ormai avverto come qualcosa di acclarato e pacifico, quasi universalmente riconosciuto dagli studiosi, che la reciproca contaminazione tra lingua italiana e dialetto abbia effetti rigeneranti per la stessa lingua italiana e consenta, d’altro canto, di aprire interessanti piste di sperimentazione e spazi di ricerca di verità, nuovo vigore e rigore nella scrittura in versi, cogliendo sonorità, suggestioni e soluzioni diversamente impensabili.

E davvero, nel bel libro di Sassetto, avverto ricerca, esplorazione del tessuto identitario, cura del senso originario delle cose e dell’Uomo e, aggiungo, avverto l’offerta di una mappa, una topografia della voce poetica dell’autore: sono convinta che la scelta del dialetto come lingua della poesia (sempre che di scelta sia possibile parlare, che non sia più corretto affermare che dal dialetto si venga scelti e parlati) sono convinta che tale scelta dica, e parecchio, del luogo natio di quella poesia, che essa sia, in effetti, il luogo in cui la poesia ha la propria sorgente. E immagino sia piuttosto chiaro che per luogo non intendo qui uno spazio geografico ma una posizione interna, un dispiegarsi e situarsi dell’Io che ne orienta l’ascolto e la voce, ripulendo entrambi dal rumore e precisandone l’opzione di poetica.

Nella poesia di Francesco Sassetto, un soave dialetto veneziano è, in questo senso, lo strumento artistico di precisione, la finissima lima cui si affida un’opera che a me appare di struggente e plurivoca sottrazione.

Patrizia Sardisco

 
 
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