In questi testi di Lucianna Argentino si tratta uno dei temi più complessi da affrontare in versi, ovvero quello del sentimento amoroso: ma non è sentimentalismo quello della nostra autrice, quanto piuttosto la riscoperta di una prospettiva di vita rinnovata, rifiorita, in cui il senso del sacro si coniuga in modo stretto all’esperienza del ritorno, vissuta come avvicinamento alla verità – dove l’amore diventa portatore di significato, di senso e di direzione nella vita dell’uomo in relazione con l’altro.
Già nel primo testo la Argentino chiede perdono per aver negato a questo sentimento la sua profondità, la sua capacità di resistere alle difficoltà, al tempo, alla mancanza – con un topos piuttosto classico, quello delle stagioni, la “nostra estate piena” diventa momento di riscoperta, di maturazione, dopo l’invito di una primavera negata e i molti inverni “caparbi”, testardi nella loro negazione, razionale, del sentimento.
Dal rimpianto si passa istantaneamente allo spirito ieratico già accennato in precedenza: l’immagine de “le mani giunte in preghiera / per la grazia del qui e ora” diventa quella di un canto al segreto della realtà, per raggiungere uno stato di grazia liberatoria, salvifica, che nell’istante della comunione sentimentale riesce a liberare “dal per sempre”, nella febbre di un attimo passeggero ma autentico, quasi assoluto.
Si conferma nel secondo testo l’attitudine sacra della parola della Argentino, dove in quattro brevi versi si materializza uno dei principi cardine dell’amore più spirituale: il sacrificio incondizionato, senza aspettative, come quello dell’agnello piegato alla lama, rappresentata dall’amato; il dio cui si offre il sacrificio “dimora nel mio ventre”: è il sentimento stesso, che merita il tributo più grande, incurante di ogni rischio e perdita.
Cosa porta a una simile risolutezza, soprattutto dopo un tempo così lungo come quello che è dato intuire dai versi? Niente altro che l’assenza, il pensiero ricorrente rivolto all’amore perduto, che consente di comprendere “quanta vita ci vuole / per capire il come e il cosa dell’amore”, insieme al rimpianto, maturato stagione dopo stagione, dei “battiti perduti”, del “calore disperso”, di quello che appare finalmente riconosciuto come un enorme spreco di attimi e di sentimenti, quasi un tradimento nei confronti della vita (non a caso ricorre il paragone con Giuda).
Questa rinuncia, probabilmente effettuata con convinzione raziocinante, materica, determinata, non è altro che un sottrarsi “alla verità” – una consapevolezza di cui si sente il peso della lenta e decantata maturazione.
Alla fine (penso a una poesia di Salvatore Toma, quando ribadiva che “Non si può soffocare a lungo / un amore … Lo si può ritardare questo sì / per vari comodi … con violenza per anni … ma alla fine trionfa”) “Riemerse … un nome reticente sulla punta della lingua” e il solo nominare la persona apparentemente perduta ha tutto il sapore di una conferma antica, dopo anni di tradimento e negazione della propria natura più autentica, raggiungendo infine l’esperienza della “luce che lui ora riporta alla mia riva”.
Ci vorrebbe un termine appropriato, opposto alla nostalgia, per definire la potenza umana di questa ricomposizione salvifica, liberatoria, di cui si avverte già dal testo il senso di completezza e di realizzazione umana e sentimentale: così come la nostalgia, infatti, etimologicamente rappresenta il dolore causato dal ritorno, il termine che sembrano suggerire questi versi dovrebbe incarnare la gioia, il compimento, il senso sacro di accurata e precisa totalità causato da un ritorno in cui, prima, si erano perse le speranze (ma mai il ricordo) e che, lentamente, con il passare del tempo, ha dimostrato la propria ineluttabile e autorevole vitalità, con un’evidenza che ha il sapore di un destino.
Mario Famularo
Continua su Laboratori Poesia