Parole a matita, poesie di Massimo Klun, disegni di Maurizio Stagni (Samuele Editore 2020, fuori collana, nota introduttiva di Claudio Grisancich, prefazione di Francesco De Filippo)
Una geometria della forma alberga in una fantasia prorompente per la quale la parola è lasciata libera di giocare con le altre in un percussivo, tonitruante movimento. È quasi un richiamo palazzeschiano quello offerto da “Parole a matita” in cui ritroviamo quella sintesi efficace e melodica che unisce il verso-non verso al disegno, una compatta, avvolgente, strabiliante metamorfosi della scrittura che si rinnova ad ogni passo. Massimo Klun non è un poeta (lo afferma egli stesso, in un impeto di modestia), è semmai un giocoliere della poesia, un funambolico fruitore di novità tecnologiche (l’i-phone, su tutte) messe al servizio della scrittura, quella scrittura che trova immagine, che si fa icona, indelebile, incancellabile, grazie ai disegni di Maurizio Stagni, anch’egli artista per diletto, per piacere, forse semplicemente per passione smodata. Così il tempo dispiegato sulla carta si fa segno, apodittico sigillo di una verità, la propria, senza pretese di esaustività, semplicemente gettata senza infingimenti o dissimulazioni sul rigo. L’anima “distratta” soggiace a continui mutamenti, ma ogni singolo attimo è zanzottianamente meritevole di infiniti poemi o quanto meno di singolari ricordi, fossero anche “impressioni aride” e “arcobaleni invecchiati” da non obliare. L’autore intinge la penna nell’inchiostro dando vita a uno stile originale a un tratto dimesso ed esuberante in cui riluce il colorismo di una mente gioviale e ironica.
Scrivi
imbratti i muri del tuo smartphone
alla ricerca di un lungo verso beat
serpentina di parole sfilacciate (ma brevi)
lego di lettere scomposte
musica solo ai tuoi occhi
rumori ermetici senza vita
che mai saranno immagine
I moderni sistemi di comunicazione appaiono nella scrittura di Klun incapaci di originare quella composizione poetica che nasce dalla fantasia e dall’osservazione della realtà, balcanizzata da continue informazioni inutili e dispersive. La grande epoca della connessione globale ci conduce all’isolamento, a una solitudine costante in cui è preferibile staccare la spina e dedicarsi alla rielaborazione del proprio Io senza infingimenti. Epigrammi, versi spezzettati, parodie sono tutte forme di un uso sagace della penna, in grado di cogliere i dilemmi della contemporaneità invasa dai social che non lasciano spazio a riflessioni di sorta. Nel profluvio delle immagini che si stagliano nella poesia e nel disegno emergono voci lontane, tragedie indelebili riammesse al consesso della memoria collettiva (lo shock petrolifero e l’austerity del ’73, il Vajont, le foibe, l’Istria in guerra, il conflitto dello Yom Kippur, l’incendio della cattedrale di Notre-Dame). Nella macrostoria si incista l’esperienza di vita personale con le bolle di memoria che appesantiscono talvolta il cammino, specialmente nella riemersione del ruolo di figlio-padre:
Per quanto tempo
(papà, papà?)
ho atteso invano
la tua approvazione
a parole sguardi gesti smorfie
scoregge
Nulla se non
quell’espressione rincagnata
dissimulata di innaturale invidia
Ti ho persino
(peccato immortale!)
augurato una fine prematura
e quando essa ti ha colto
una vita dopo
ho pregato su di te e
ho sfregato inutilmente le rughe
ormai fredde
per raccogliere la tua approvazione
Un continuo saliscendi emozionale connota i versi di Klun, efficaci nel rattenere e stimolare infaticabilmente, instancabilmente l’ispirazione, nascente dal disagio:
Rigirarmi nel letto
alla ricerca del giusto verso
tra cuscini macigni
voglia di oblio
mista ad anni di memorie
storie che all’alba
svaporano nel fumo
della prima sigaretta
C’è ancora speranza per il futuro se si rimarrà capaci di sfogliare sogni e ideali perlomeno quel tanto che basta a
inseguire un anello di fumo
accoccolato in un bicchiere di vino
divorare gli aromi
di adesso, ora
L’hic et nunc pervade l’intera produzione di queste “Parole a matita” dove in punta di piedi, sommessamente ma non troppo si staglia un pensiero limpido, cristallino, attentamente vagliato, su di sé, privo di incensamenti e di malizia. Così si può liberamente conversare con Pavese, passeggiare nei luoghi di Joyce, agitare la memoria di Saba mentre si avanza a grandi passi verso prossimi “inciampati” e fruttuosi incontri.
Federico Migliorati