“Mio nonno ripeteva di continuo/ nella vita bisogna stare sempre/ con la schiena dritta”.
Uno dei versi iniziali della bella raccolta di Francesco Tomada, Affrontare la gioia da soli, ci racconta dell’ostinazione, come appunto quella dei cipressi che tendono sempre verso l’alto, non come atto di forza ma come atto di comprensione, ascolto.
Il libro di Tomada si muove entro due grandi linee temporali: il passato che serve da bacino e il presente che non si può davvero raccontare.
Affrontare la gioia da soli è un libro in cui il racconto di sé si eleva oltre la linea strettamente emozionale o addirittura dell’autocompiacimento come spesso accade per molta poesia che alcuni definirebbero confessionale. L’autenticità è un elemento che viene fuori quando non si smette di indagare, anche quando il poeta racconta un evento apparentemente marginale. Dico apparentemente perché nulla di ciò che colpisce gli occhi di chi racconta può essere davvero marginale, se lo si sa rendere. E Tomada ci riesce.
Gioia come qualcosa a cui non si è pronti, che si deve elaborare.
Soprattutto è stare con i piedi nel presente: “amare è un verbo che ha senso soltanto al presente”.
Abbiamo detto della tensione verso l’alto, come quella degli alberi, i cipressi sempreverdi che si ergono senza tempo eppure delineando lo spazio. Eppure questa tensione non è mai rottura: fendere l’aria senza guastarla è arte per pochi. La raccolta è pervasa da un senso di finitezza ma anche da una temerarietà della parola “semplice”, dove il termine semplice racchiude ciò a cui il lettore contemporaneo forse deve ancora prepararsi: la linearità.
Melania Panico
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