Distopica
Marina Giovannelli
Pagine 84
Prezzo 13 euro
ISBN 978-88-94944-67-9
Versione online Sbac!
Prezzo 4 euro
Per affrontare il nuovo libro di Marina Giovannelli è necessario, se non addirittura imperativo, affrontarne in primis il titolo: Distopica. Cos’è distopico? L’autrice, da cui la declinazione al femminile? La realtà? O si sottende semplicemente un “mi sento distopica” senza che questo vada a intaccare l’identità di chi lo dice?
Restando sul facile ancoraggio delle definizioni, sappiamo che la distopia è una previsione, descrizione o rappresentazione di uno stato di cose futuro con cui, contrariamente all’utopia e per lo più in aperta polemica con tendenze avvertite nel presente, si prefigurano situazioni, sviluppi, assetti politico-sociali e tecnologici altamente negativi (fonte Treccani).
Per distopico si intende, in letteratura, anche un racconto che prefigura una società futura spaventosa, cruda, in linea con l’etimologia del termine: “un luogo cattivo”. Ma distopico è anche un organo, in medicina, in posizione anomala rispetto alla sua sede normale. Tornando a Distopica di Marina Giovannelli ci facciamo aiutare dai testi della sezione eponima dove si mettono in relazione ordine con disordine, giorno con notte, il dato con il tolto, la morte con l’immortalità fittizia data dai compleanni che “facebook non dimentica”, la possibilità del dire tra “cose false” e “cose vere”.
Fino al testo “Distopica” che ripercorre quasi poematicamente un viaggio che ricorda quello di Ishtar (Il libro della memoria e dell’oblio, Samuele Editore, 2013). Ma se Ishtar presiedeva all’amore, sia sacro che profano come giustamente sottolineava Francesco Tomada in una sua recensione su La dimora del tempo sospeso, qui l’incipit se ne discosta nettamente affermando “Non più a ciascuno la sua Parca”. Quel che prima era “discesa nella città del buio” attraverso tappe di svelamento, denudamento per flagrare in musica, oggi quasi pasolinianamente (del Pasolini che scriveva sulla fontana di Casarsa nel 1941/1943 e nel 1974) diventa un “semaforo [che] indugia sul rosso”, quel che prima era un “deporre” (scettro, serto, gioie vere, orecchini, cinto delle nozze) ora diventa una mano che “affonda lentamente nel bitume”. La nudità di Ishtar ora diventa un “tagliaerba robotico” che aliena il proprio sentirsi vivi pur partendo dalla medesima sfera sensoriale (“profumata d’incenso / nella nuova stagione / la tua parola benedetta”, Il libro della memoria e dell’oblio – “esalano fragranze confuse / menta lavanda papavero / sistemerà l’anomalia sui margini / il tagliaerba robotico”, Distopica).
[…]
Distopica di Marina Giovannelli è un libro apparentemente duro e doloroso. Ma questi sono i sentimenti umani oltre i radi momenti di felicità, o di possibilità di felicità. Il mondo, il corpo, gli affetti, scorrono come elementi continuamente mutevoli, transitori, anche se lasciano inevitabilmente tracce indelebili. Ciò che val la pena per un essere umano è proprio quel restare a sentire, a voler bene, a guardare, mentre tutto cambia. Perché siamo la somma di ciò che abbiamo amato e di ciò che ci ha amato. Un’essenza oltre ogni futuro e desiderio nonostante “l’evidenza del quasi / insostenibile”. O, come Marina Giovannelli scrive in uno dei testi più belli della raccolta, che diventa auspicio: “che resti solo nudità di vita”.
Alessandro Canzian
Quello che resta
È rosso senza scampo
Stregata d’incendio terminale
lo sguardo all’assenza di confine
so che sarà presto silenzio
Lo sanno tutti o gli pare una festa?
A trattenere l’ultimo bagliore
memoria resta quella della foto
documento del tragico finale
Ma improvvisi s’accendono lampioni
tenue ristoro al buio precipizio
a indicare una bava di sentiero
verso dove c’è ancora una meta
Survivor
In mezzo al gorgo mi sbraccio a salutare
va tutto bene dice quella di Beckett
Non vado a picco scivolo poco al giorno
tra bucce di patate crisantemi e il vizio
assurdo della parola incastonata nel letame
che non nascono fior ma allegorie
poco romantiche finché mi atteggio
a Farinata goccia dopo goccia
d’ansiolitico tra un sogghigno e una smorfia
Non sarò mai Wislawa la stratega
dell’ironia feroce e sorridente.
Time out
Il giorno che hai detto cos’è quello
la mano sulla cornetta del telefono
– piccolo dinosauro domestico –
ignaro di numeri rotanti
ho provato vergogna di questo tempo
scaduto a mia insaputa
tra un’istanza e un dolcetto
una pace fittizia e la fretta
che cancella distanze
memorie e pentimenti
Quando morirò
Quando morirò
verrà con me la luna
gigantesca di quella notte
magica di sabbia
Non si saprà del tiglio
dalle foglie a cuore
per l’erbario del piccolo
nemmeno dello scoglio
e del tuffo arrischiato.
Quando morirò sarà pagina
bianca di pensieri vaganti
che nessuno ha raccolto
La gatta non capirà l’assenza
prolungata il plaid
riposto nell’armadio
Dal computer verranno ancora
auguri per il compleanno
ché facebook non dimentica
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