I chiodi dell’acqua
Marcello Strommillo
Pagine 114
Prezzo 13 €
ISBN 978-88-94944-78-5
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Prezzo 4 euro
Non vi è il faccia a faccia con l’ineffabile: tutto può essere detto e va detto; l’altro (chi è dall’altra parte della pagina; ma anche della strada, del confine, del pianeta) non è un avversario ma una persona disposta all’ascolto. E va accolto lungo le vie di un’interlocuzione che, scartando ogni pronuncia che sorga dalle scaturigini del linguaggio, scorre irrefrenabilmente tra le persone viventi, tra i vivi e i non più, tra i nascituri e i postumi (Klee), tra i terragni e i superni (numerosi sono i richiami cristologici).
Solo che questa ininterrotta pronuncia, nemica d’ineffabile, si rivolge all’altro con un’affabilità disperata perché piegata sotto il peso delle figure che germinano ininterrotte e rapide si accumulano: qualcosa che somiglia a una nevrosi d’ansia del bene, a un overload d’intenzioni, a una cecità da abbagliamento, si interpone tra i dialoganti. Ed è forse il destino di buona parte della poesia che non sceglie le scorciatoie del bozzettismo, dello sfogo sentimentale, dell’indottrinamento sentenzioso e del canto fine a sé stesso.
Il libro, nel suo insieme coeso, è articolato in sette parti o capitoli, ciascuno a suo modo tematico. Flauto d’aule è un resoconto scolastico (Strommillo insegna filosofia) che si risolve in una sacralizzazione dell’adolescenza, intesa come fase dell’esistenza umana di massima incandescenza, esaltazione, pericolo: il rito relazionale docente-discente, che a lampi si colora delle tinte sanguigne del sacrificio, trova qui un duplice altare nel banco e nella cattedra.
La seconda parte, Parola mattutina, presenta parole che si animano, interloquendo con colui che le usa. Questo capitolo normalizza lo straniamento sistematizzandolo, un po’ alla maniera del Paz surrealista. Lo prendiamo alla stregua di un manualetto di micropoetica.
Segue la terza parte eponima, che si svolge tra irritazione percettiva e smania del riposo. L’andirivieni febbrile tra i luoghi di una città si fa correlativo dell’incontro tra i vivi e i morti: lungo gl’impraticabili tragitti, fatiche e figure si coagulano, e tutto si fa simbolo.
dalla prefazione di
Eugenio Lucrezi
Marcello Strommillo non è un ‘poeta’ che fa di mestiere l’insegnante, il ‘professore’. È poeta perché fa il professore. L’aula è la sua arcadia (post-)nichilista, il luogo in cui si canta il senso del mondo; la classe è la ‘stanza’ poetica in cui trovare la rima e il ritmo della vita che si forma. Vedere la realtà attraverso l’innocenza quasi barbarica dei suoi giovani studenti. Le cose acquistano spessore e verità nello sguardo di questi adolescenti, alunni della sua classe – la classe che è il mondo stesso in cerca del senso, ricerca inconsapevole, istintuale: una coscienza che è paradossalmente prima della coscienza, quasi ancora istinto e non ancora auto-coscienza, terra di mezzo del sogno, in cui l’essere si annuncia quasi profeticamente, sgorgando dal cuore della vita, e cerca, anela alla sua realtà: «Ragazzi, miei barbari bambini, / profeti di questi schizzo azzurrino / di questo guizzo di delfini senza mare…», quel mare «dove i ragazzi mettono i piedi / e con in braccio le stelle sognano / di nuotare».
Strommillo vuole vedere le cose, il reale, emergere nella pudica, non detta attesa di questi ragazzi, come se lui, il poeta-professore avesse bisogno di loro (molto più che loro di lui!) per ritrovare il fiat che fa essere il mondo: «Mi splende negli occhi la tua carne / Ha un occhio solo il mondo / Se ti guardo negli occhi / Portalo ora il sapore della sete». Le cose sono veramente, se riemergono nella luce del bisogno del cuore dell’uomo. L’io di questi ragazzi, spesso senza saperlo, ma percependolo in ogni caso, hanno bisogno del mondo, e in questa loro sete, in quest’arsura il mondo ritrova una sua inaspettata, inedita chance.
dalla postazione di
Costantino Esposito
Chi vi ha sepolti nei vostri banchi
affranti di luce bianca anodizzata,
troppo piccoli per voi sempre stanchi?
Fu il mare. Il sole caldo sulle ossa
spiaggiate delle vostre spine dorsali
che Napoli nelle catacombe indossa.
Ora muti senza la lingua dei querceti
con l’aceto dell’inglese sulle labbra,
algoritmi di baci cercate nello spineto
senza spine senza odore di pioggia.
Figli miei controluce,
mettete una piantina
sulla soglia,
svegliate tutte le mattine le sue
doglie.
Come difendersi dai poeti
di giorno e di notte
che ti chiedono non si sa
che cosa,
forse solo di oscurare
una rosa?
Ma se ne chiami uno
per nome
quando prendi di corsa la corriera
conserverai nel viaggio forse
appena qualcosa:
nella pioggia della sera
una strana luce mattiniera.
I chiodi dell’acqua già fioriscono
lungo l’argine dei riposi.
E credimi: solo l’acqua conosce
il lampo dei chiodi
quelli che dissetano i fori delle mani.
Poi riprende sempre il vento
a confondere il battito delle porte.
Sarà partenza? Sarà arrivo?
La gioia unghia solo nella carne.
Se le finestre fuggono la sera
come uccelli stanchi della gente
viaggiando tu le guardi quando annera
si spezzano nella festa degli sguardi
per te che ti affacci e nell’aria menti
sapendo che per amare fai tardi.
Vederti nella sera le stoviglie
allineare sulle soglie della
mia fame è questa la meraviglia.
A che punto siamo della notte,
mi chiedi? Dove?
Cerca ti dico cerca
nel principio di neve
sotto le scarpe
dei morti.
Non cercare i morti beati
ma quelli con la testa
spaccata dallo squilibrio
di un papavero nel vento che resta.
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