Quarantadue – Beatrice Zerbini


 
 
Quarantadue
Beatrice Zerbini
Pagine 76
Prezzo 13 euro
ISBN 979-12-81825-14-7
 
 


 
 

La felicità è inafferrabile; la sofferenza si può abitare, ha un volto, non ti abbandona. E in fondo c’è la soglia ultima di un “dopo” irrevocabile che porta altrove l’immaginazione o la annichilisce.
In Quarantadue di Beatrice Zerbini la morte appare quale impulso metafisico capace di abbracciare la vita con tutte le paure e le sofferenze che impastano il nostro stare nel mondo.
La parola, accesa da cortocircuiti e grumi metaforici fino al paradosso o all’antitesi, è capace di portare a presenza e di mescolare l’accaduto con il non accaduto o il non accadente, trattenendo un corpo di ricordi tanto ostinato quanto doloroso, eppure sempre scandito dall’apertura e dalla compassione per il flusso che continua.
La morte è paura di morire, perdita di una persona cara a cui dire comunque “torna prima che faccia buio”, ma nello sguardo di Zerbini prevale il voler bene, in “tutti i luoghi del mondo”.
E, però, la felicità come si può dire? Davvero si può solo intuire nei vuoti tra una parola di sofferenza e un’altra? Oppure la felicità della parola, la poesia, può toccarci?

 
 
 
 
Il compleanno dei morti
si festeggia da soli
in un segreto
che non fa scalpore.
 
I pasticcini sono moniti e puntelli
di cose fatte
e indietro
e spente;
 
i salatini polpastrelli
esausti
che mollano la presa;
 
i cappellini degli invitati ignari
sono abusi
di fantasie.
 
E sui bicchieri bianchi
sparsi
alla tavola dei restanti
c’è scritto:
perché
perché
perché,
da non confonderci.
 
Al compleanno dei morti, i regali
implodono, mine
sulle vetrine da fuori
sono colori che ti piacevano
e ossessioni tue
e prese in giro che se tu fossi…
Ma non sei.
 
Al posto
degli applausi, stare zitti;
al posto delle orecchie
da tirare, gli occhi
che sono cento o forse
uno solo, immenso;
 
dei cappotti sul letto,
un vago freddo;
delle risate in sala
una fitta;
al posto degli auguri,
una poesia non letta.
 
 
 
 
 
 
Ti scrivo da un aeroporto,
dal margine
della sala d’attesa, fra poco
sarò così vicina
a te che ti sperdi
fra le nuvole, che spargi 
ciò che era il movimento
in ciò che non si muove.
 
Sto arrivando, sto
per mettere la testa negli azzurri.
 
Ti mando questo
pensiero come a dirti
spero dove sei tu ora che
tu stia bene e che il tuo cuore
continui a battere veloce, che tu
abbia tempo
per riposare e che mi pensi
ogni tanto e sappia
con chi parlo quando è a te
che non posso parlare.
 
 
 
 
 
 
Il cadavere dei cani non è
come quello di noi umani.
 
Nessun pallore,
la bocca non è aperta 
e non è bocca;
solo il respiro si assomiglia 
l’abbassarsi del petto
come una nebbia che sfuma e poi sfuma,
finché tutto
all’improvviso è chiaro.
 
 
 
 
 
 
Tu che non sei
tu c’eri un giorno:
 
non scuoto, trattengo immobile
il tuo miracolo disabitato
adesso
 
sfioro di te
quel che rimane: fredda
la tua febbre
sul mio termometro.
 
 
 
 
 
 
Sono anni che passeggi senza sosta
corridoio, bagno,
cucina, corridoio. Frana
la terra sotto ai piedi
non la palladiana.
 
Assolvi una faccia
sopra a sfondi fissi,
scavalchi l’alba
dalla vasca sbreccata,
 
nell’arancio di una stanza, apri
e chiudi, apri e chiudi l’anta sola
dell’armadio di tutti
 
e l’ascensore sempre
a salire, cerchi
le chiavi da dentro,
avanti e indietro, ridi
ridi chiami, persino
mi ami.
 
Sei tu che mi guidi 
nell’andirivieni di alzarmi,
andare, tutto assicurarmi
fuorché l’amore.
 
 
 
 
 
 
Ho paura che sia
per dolori differenti,
ma le guance sono tiepide,
come le pietre prima
che si spezzi il lago; sono forse
le nostre infanzie che si incontrano.
Vestiamo insieme queste bambole
che non vogliono mangiare.