Agente XXV° Operazione Kozlov – Roberto De Santa


 
 

Agente XXV° Operazione Kozlov
Roberto De Santa

Samuele Editore 2023, romanzo
Isbn. 978-88-94944-93-8
pag. 150

Con illustrazioni di Antonio Steffan
13€


 
Versione online Sbac!
Prezzo 5 euro

 
 
 
 

Capitolo 1

Mi sentivo intristito, infreddolito, con ciabatta infradito non consona al meteo avverso che faceva drizzare i peli del culo, esposto com’era a un vento gelido. Pensavo meditabondo e assai scontento a come, puttanaeva, un giorno bello e sereno e firulì firulà, si possa tramutare in merda secca.
Il cambio climatico improvviso mi aveva colto con pantaloncini corti color arancio tarocco che sguarnivano oscenamente le mie ginocchia secche-secche. Le sopra menzionate ciabatte infradito, di un bel verde marcio, odoravano di gomma esausta cino-vietnamita e mal si abbinavano alla canotta di noti stilisti meneghini. Una mise quindi inadatta, totalmente inadatta al procedere spedito di una vita degna di esser vissuta, con gli agi dei tempi contemporanei. Canotta e infradito: altro che smoking per gran soirèe!
Quello avevo addosso, sferzato da una bora scura triestina; quale fascino avrei potuto emanare in codeste tristi condizioni?
Ero in un bosco di pini marittimi. Un bosco dove le prime ore della notte mi avevano accolto tremante e ansimante, ma speranzoso d’aver seminato due uomini all’interno di una BMW nera, che da un bel po’ avevo notato nello specchietto retrovisore della mia anonima utilitaria. Mi ero infrattato, sterzando inopinatamente lungo un sentiero sabbioso taglia fuoco, non prima però di aver spento ogni luce della: (Panda Mira i Fiori).
Avevo così proseguito al buio, guidando come in una canzone del fu Battisti Lucio, fino a quando le ruotine anteriori si erano rifiutate di proseguire, lasciandomi appiedato, insabbiato, incazzato. Uscii dal misero abitacolo, poco insonorizzato, richiusi la lievissima portiera, cercando di far il minor rumore possibile e incominciai a vagare nella oscura selva, provando a dirigermi alla meta del mio fottuto appuntamento. Ad essere sincero, non poca sorpresa mi aveva assalito, quando alcune settimane prima avevo ricevuto una telefonata dal redivivo Dmitri.
Più di due anni erano trascorsi da quando il russo ciccione era improvvisamente sparito, molto probabilmente rimpatriato nelle sue lontane e fredde terre, mandando così a puttane una rete già ben strutturata. Il motivo di questa sparizione era da ricercare nel mio fruttuoso lavoro di analisi che aveva portato alla luce la doppia personalità della moglie di Dmitri.
Olga, così si chiamava la giovane e carina signora; non era affatto un’ingenuo sprovveduto essere, interessato solo allo shopping compulsivo. Avevo trovato in Israele tracce di una sua fattiva presenza nel ben strutturato esercito di quel Paese tanto amato da Dio. Affrontai Olga, mentre civettuola sotto lo scroscio della doccia, nuda e insaponata, era stata messa al corrente che conoscevo perfettamente i suoi trascorsi e adombravo la sua attività e presenza nei Servizi sionisti. Lei, subito dopo, si era eclissata, abbandonando casa, marito e postazione privilegiata, come osservatrice, del lavoro di ricerche informatiche di Dmitri.
In realtà il lavoro ufficiale del russo, consisteva nell’importare scarti ferrosi; aveva una piccola fonderia e una grande disponibilità economica, che non nascondeva, ma anzi esibiva con tutta una serie di beni che richiamavano l’attenzione anche di un non vedente. Questo suo comportamento io non lo sopportavo! Ero cresciuto “professionalmente” nella DDR, all’ombra del capitano Oleg, che Iddio l’abbia in gloria, così parco nelle sue manifestazioni, così puntiglioso nel farci apprendere l’arte d’essere invisibili.
Avrebbe giudicato Dmitri uno stupido presuntuoso, totalmente inadatto a svolgere queste attività assai delicate. Altri tempi, altre ideologie, altri uomini e soprattutto altre sigle.

Così Dmitri era ricomparso nella mia vita, si era nuovamente acquartierato nel suo villone immerso in un bosco di pini marittimi e davanti a una serie quasi infinita di computer super veloci, aveva ricominciato a navigare nella rete. Naturalmente senza Olga, sostituita da una governante molto seria, quasi austera, secca secca, che aveva scritto in fronte la sua provenienza dagli uffici più qualificati dell’agenzia FsB o GRU.
A Mosca volevano star tranquilli. Questa volta!
Dopo una pausa durata più di due anni le conversazioni che mi dovevo sorbire dall’oligarca informatico avevano una frequenza settimanale; troppe per non guastare il mio già fragile umore. Ma a suo insindacabile parere erano indispensabili per aggiornarmi sui numerosi programmi in corso d’opera. Alla porta, dopo aver suonato tre volte il campanello, immancabile si materializzava la Signora Kozlov, la governante? La prima volta si presentò sussurrando il suo cognome, subito richiuse l’uscio, non prima però di aver dato un’occhiata interrogativa all’esterno. Per caso ero stato seguito da qualcuno?
La sua mano era fredda come quella di un cadavere e la presa insopportabilmente lunga e decisa. Mi ordinò di togliermi le scarpe e infilare i piedi in ridicole babbucce, poi con il suo accento slavo mi disse di seguirla, ciabattando come due pinguini. La casa in stile mediterraneo-socialista me la ricordavo ancora bene, ora però mi sembrava ancor di più pregna di oggetti, soprammobili, ninnoli assolutamente kitsch.
Arrivammo nello studio, dove Dmitri seduto in una poltroncina ergonomica dotata di ruote, era intento a visionare dei grafici su due schermi accesi. La luce azzurra illuminava la sua bocca impegnata nella masticazione. Una larga fetta di pane imburrato con sopra del prosciutto San Daniele e alcuni cetriolini sotto aceto era appoggiata in un piatto di plastica. Una bottiglia di prosecco appannata, gocciolante, mezza vuota e un bicchiere poco lontano testimoniavano che il San Daniele era stato agevolato a scendere dall’esofago nelle parti basse dello stomaco.
Erano le nove e venticinque di uno splendido mattino; presumevo che quella fosse la sua prima colazione e se ben mi ricordavo il russo non ti offriva mai niente.
Mi salutò a bocca piena:
«Come sta, tu testa matta e vecchia, vedo che respiri bene!»
«Grazie Dmitri, trovo molto bene anche te»
«Ora faccio dieta, uomo nuovo e bello e sano».
Nel frattempo aveva finito di mangiare la fetta imburrata. Sentii un leggero alito di vento sulla nuca, mi girai, la signora Kozlov era sparita lasciando nello studio una scia odorosa di naftalina.
«Tante bele, belissime novità da dire a te»
Io: «A proposito, hai notizie di tua moglie Olga?»
Il prosecco gli andò di traverso, cominciò a tossire e sputare, sporcando i monitor. Sgranò gli occhi e divenne paonazzo, assai più del suo solito colorito rubizzo. Quando si riprese mi fece cenno solo con la mano di non nominare mai più quel nome, guardando preoccupato la porta socchiusa dove poco prima era transitata la governante.
Continuò, mimando a gesti, di parlare il più piano possibile, qualcuno forse origliava? Pensai: “ Ma tutta quella tecnologia a sua disposizione non aveva forse reso obsoleti questi metodi elementari di dissimulare?” La verità era che i computer più veloci del mondo, le analisi satellitari più accurate del centro Sigint di Mosca, nulla potevano contro l’alfabeto muto che goffamente utilizzava Dmitri. Poi continuò:
«Ti piacciono barche? Ho comprato un dodici metri Cranchi Smeraldo 37 molto belo. Sabato prossimo tu e tua moglie Karin venite a fare piccolo giro in Adriatico. Questo telecomando dare a te per alzare sbarra porto, aspetto voi ore dieci».
«Noo, guarda io proprio … già nei vaporetti di Venezia soffro il mal di mare!»
«Ma questo non invito per gita, questo ordine!»

Puntuali, dall’interno della nostra Panda bianca, facemmo scattare l’automatismo di sollevamento della barriera, ci immettemmo nel parcheggio auto del porto situato nella foce di un fiume.
Le auto in sosta facevano bella mostra di sé e rappresentavano le più prestigiose case automobilistiche. Noi eravamo l’eccezione e ciò non era un bene perché poteva attirare l’attenzione.
Qualcuno guardandoci avrebbe potuto pensare:
«Chi sono questi due pezzenti?»
Io e Karin ci dirigemmo a piedi verso la banchina dove sapevamo che era ormeggiato lo Smeraldo 37.

Descrivere Karin è come parlare di me stesso. Se il motto che spesso cito è: “Nessuno è mai come sembra”, ciò non è valido per mia moglie. Siamo una coppia granitica, nella vita e nel lavoro.
Collaudata, collaudatissima da decenni di vita in comune.
Conobbi lei, e questa è vera preistoria, nella Berlino divisa dal muro. Perché ero a Berlino? Per caso, dopo la laurea avrei potuto essere in qualunque luogo. Come conobbi Karin? Beh forse il caso qui centra poco. Mi fu affiancata come guida, fu una “Beatrice” teutonica, anche lei immersa nelle complesse relazioni politiche e nel precario equilibrio tra Est e Ovest di quegli anni.
Conobbi la sua attività segreta e fui invitato a collaborare, sapevano che vivevo in Italia nei pressi di una strategica base Nato a cui erano molto interessati.
Mi addestrarono, seguii dei corsi all’uso di micro macchine fotografiche, registratori, armi; imparai a usare il mio corpo per difendermi da una aggressione, ci insegnarono a essere invisibili tra la gente. La prima operazione o progetto come veniva da loro chiamato, fu invero molto banale, dovevo raccogliere e inviare dei micro negativi. Tutto qui. Prima però avevo dovuto giurare; ero divenuto così una: “Kundschafter des Friedens” (vedetta della pace), facevo parte: del “HVA Hauptverwaltung Aufklärung” (servizio esteri) con il codice di: “Agente XXV”. Nel Ministero per la Sicurezza i numeri erano rigorosamente scritti con l’alfabeto romano.
In quei primi anni ottanta, feci inoltre un altro ben più importante giuramento di cui mai mi pentii. Nella Rathaus (municipio) di Pankow, un sobborgo di Berlino, il Bürgermeister (sindaco) unì in matrimonio un giovane italiano e una ragazza della DDR. Mio testimone fu il Capitano Oleg il mio diretto superiore e mentore, uomo di vivida intelligenza e di notevole prestanza fisica, così diverso da Dmitri l’armatore sul cui nuovo dodici metri eravamo diretti a far visita.

Ci accolse con un asciugamano rosso allacciato sulla panza, sbracciandosi da lontano, temendo di non esser visto.
«Ma priego miei bei piccioncini, priego Karin dare me mano, su salire e… togliere scarpe!»
Stava diventando una abitudine noiosa! Salimmo da poppa, il bel pavimento di legno di teack venne preservato dal nostro incedere a piedi nudi ed entrammo nella prima sala. Era un piccolo soggiorno dove il legno predominante dell’arredamento era il ciliegio con le sue belle e calde venature rossicce, i divani ad angolo erano invece di pelle color crema.
Seduta, intenta nella lettura di un giornale di moda c’era una donna. Una brunetta con un taglio di capelli a caschetto simile al personaggio di “Valentina” di Guido Crepax. Molto abbronzata e molto giovane. Venticinque anni? Poi avvicinatomi per le presentazioni, notai che forse ne aveva assai di più. Dmitri:
«Questa è Antonia, Tony per amici, mia brava, bravissima segretaria fonderia con sede a Poincicco, ricordi tu fonderia? Da scarti fare tondini in ferro».

Come avrei potuto dimenticare la sua fonderia; nei suoi tondini c’era finito un collaboratore del dissidente Mikhail Jodorkosky. Eliminato da un commando di ufficiali del gruppo Alpha; anche quella volta “Z” Vladimir era rimasto soddisfatto dall’esito di quella operazione effettuata nel Principato di Monaco*.
Antonia si alzò molto lentamente dal divano, indossava una camicetta attillata, abbondantemente sbottonata e disse:
«Dmitri mi ha parlato molto di voi, una coppia tutto amore e lavoro, è proprio vero?»
Guardai il russo e risposi:
«Mah, dipende da cosa intende Dmitri per lavoro, io sono un insegnante e Karin una traduttrice e consulente, questo è tutto, una vita molto normale».
Pensai:
«Ma è proprio scemo! Cosa le avrà raccontato… non gli è bastata la storia con la ex moglie Olga?»
Incominciarono le operazioni per uscire dalla darsena.
I due motori Volvo diesel borbottavano sommessamente, e le due donne salirono a prua, iniziarono a parlare sdraiate su di un bianco materassino prendisole, io mi avvicinai al “comandante” che era intento alla guida con una mano sul timone e l’altra sulla manovella del gas. Gli sussurrai vicino all’orecchio:
«Cristo! E questa chi è? E cosa sa?»
«Ma tu no ti preoccupa, Tony solo brava segretaria, solo brava fare pompini, lei sa niente, niente di niente; chiamato voi su barca perché tutto qui pulito da cimici; invece a casa… ohii… ohii, Maggiore Kozlov… ehm Signora Kozlov molto cattiva, tu conosci quelli del GRU, molto cattivi. Tiene in frigo tra burro e mozzarella due fiale: separate, lei dice, non fare niente, insieme, tutti morti in pochi secondi, gas nervino binario. Lei molto cattiva».
Tre pali infissi nell’acqua segnavano la fine dell’estuario e l’inizio del mare aperto, Dmitri diede gas, la prua si alzò, dietro a noi si generò una schiuma bianca, venimmo investiti da un forte vento salmastro. Un’ora prima avevo bevuto un cappuccino, il gentile barista aveva disegnato nel latte un cuoricino con la polvere di cacao, avevo inoltre mangiato un cornetto ancora caldo, fragrante, ripieno di marmellata.
Sentivo l’irrefrenabile voglia di vomitare la mia colazione nelle belle acque verdastre dell’Adriatico. Mentre alcune gocce di sudore imperlavano la mia fronte, il ciccione con espressione demente- fanciullesca rideva soddisfatto dei repentini cambi di rotta e delle brusche accelerazioni che stava imprimendo allo Smeraldo 37.
«Prendi tu da bere, su, dare prosecco alle signore!»
Era la prima volta che offriva qualche cosa; non mi reggevo in piedi, ero sballottato e guardando la bottiglia di vino ghiacciata, subito dopo, mestamente, non solo rividi la mia prima colazione, ma anche la cena della sera precedente. Fu una tortura interminabile, interrotta solo dalla decisione del comandante:
«Adesso tutti prendere sole!»
Abbassò la levetta dell’acceleratore, spense i motori, gettò l’ancora. Mi avvicinai a lui stravolto:
«Per che cazzo hai voluto che venissimo anche noi?»
Rispose:
«Lavoro solo lavoro, qui incontro con sua barchetta piccolina, uffiziale marina italiana, voi dare aiuto a me prossima volta».
«Ma vaffanculo, manco morto, io qui non ci metto più piede!»
Sembrava sorpreso.
«Non piace mare? Vuoi panino con salami?»
Poi salì nel prendisole, con il suo asciugamano rosso attorcigliano sotto il ventre, e Karin ridiscese subito. E mi disse:
«Tony sembrerebbe innocua ma..».
La ragazza si era tuffata con la testa in mezzo alle gambe del ciccione. Stava forse eseguendo la mansione per la quale il principale tesseva le lodi a tutti? Non ci rimase altro da fare che prendere due canne da pesca abbandonate in un angolo della barca; quella sera portammo a casa due striminziti cefali. Erano pieni di spine, di lische e sapevano di fango.

Gli incontri con Dmitri erano quindi diventati una inevitabile consuetudine quasi settimanale, a peggiorare la mia gastrite psicosomatica c’era anche la presenza sfuggente della governante Kozlov. Quasi sempre si eclissava senza far rumore, l’unico suo indizio in quella casa, era l’inconfondibile odore antitarme che emanavano i suoi dimessi abiti.
Fu in un viaggio per raggiungere tali incontri, mentre nella mia auto con una musichetta di sottofondo stavo ripensando, rimuginando, riflettendo su questi non piacevoli personaggi, che appena uscito dal casello autostradale, notai una BMW immettersi nella strada dopo il mio passaggio. Tutte le BMW di sera sono nere. Ma quella era proprio nera-nera.

Modello 330i M berlina, una brutta bestia. Più di 250Cv, la mia Panda ne aveva 69. La mente divagava sul fatto che non si possa costruire un motore con 70 cavalli o 60, perché proprio 69, forse per una questione di marketing?
Oltre la musica, adoro le auto, ma non guidarle, è un altro dei miei molteplici conflitti psicologici non risolti. Nei tempi morti delle mie attività leggo con intenso interesse il mensile Quattroruote, di cui porto sempre qualche numero vecchio sui sedili posteriori della Panda, e sono un assiduo estimatore di trasmissioni che hanno come tema l’auto. In particolare apprezzo un programma motoristico sul piccolo schermo, la cui conduttrice, nata come me nelle lande sconosciute e desolate della provincia o ex provincia di Pordenone, con piglio deciso e professionale, manovra volanti o inforca due ruote, purché munite di motorazzo strombazzante.
Come l’amo questa giornalista, quando con chioma fluente al vento, si tira su la già striminzita minigonna e s’infila in abitacoli tecnologici, foderati di morbida pelle. Inforca gli occhiali da sole e ti porta in giro per l’Italia intera, magnificando la fluidità del cambio automatico del nuovo Ferrarino.
Dunque, mi ricordo, era stato un giorno particolarmente caldo, un caldo melanconico come lo sanno regalare alcune giornate di Settembre. Dovendomi recare a un incontro con Dmimitri nella città balneare di Lignano, optai per un abbigliamento consono.
Pantaloncini corti colore arancione vivido, regalatimi da Karin, ma indossati di malavoglia vincendo la mia ritrosia per un colore che giudicavo troppo esasperato per la mia età anagrafica, una tonalità più simile a una tuta da lavoro di un addetto manutenzione autostrade, o come già riferito, a una bella arancia qualità tarocco. Questo indumento metteva ancor di più in evidenza la secchezza, l’ossutezza delle mie pelose gambe. Per evitare sgradevoli ristagni di sudori ascellari indossai una canotta cinesina Dolce & Gabbana, come cinesine erano le ciabatte con l’infradito che un po’grattava sull’alluce.
Partii sul tardo pomeriggio; privo com’ero di aria condizionata, abbassai quel tanto il finestrino, attento però alle correnti d’aria, così carognone nel causare inopportune mialgie cervicali.
Ed ecco all’imbocco della statale dopo aver percorso un tratto privo di traffico dell’autostrada a quattro corsie, vedo apparire nel mio specchietto retrovisore gli occhi cattivi della BMW.
Dapprincipio non ci feci caso, poi mi chiesi:
«Come mai non mi supera? E che ci fanno quei due signorini all’interno, sono forse due checche in cerca di privacy nella campagna veneto-friulana?»
Ipotesi poco credibile perché era già da una mezzoretta che li vedevo. E di luoghi ameni ne avrebbero già trovati a decine.
Allora adottai la tecnica insegnatami molti anni prima. Guidare piano, senza strappi, senza nervosismi e cercare di intrupparsi dove c’è più confusione.
Arrivai così a Lignano Pineta: Piazza D’Olivo, architetto urbanista responsabile della pianta a spirale della cittadina balneare.
Mi fermai, parcheggiai, mi diressi verso la vela, la grande “Tenda” fronte mare, che dà il nome al medesimo locale modaiolo.
Di fianco, il Chiosco Lele’s, è il ritrovo preferito di tutti i bikers della regione e anche se non ne avevo voglia mi bevvi una birra; guardai e aspettai. Cosa? Niente, aspettai e basta.
Pensai:
«Forse sono paranoico, mi sono sbagliato».
Anche se eravamo al termine della stagione, c’era molta gente e la musica era a palla. Guardai la fila di moto Ducati e Harley Davidson parcheggiate in bella mostra, e poi levai lo sguardo verso Trieste, sopra il golfo, dove porcogiuda… si stavano addensando dei nembi scuri sopra il mare. E la brezza si trasformò in vento. Freddo. Fan culo la canotta, brachette color Hare Krishna e ciabattine.
Risalii in auto, invece di dirigermi alla casa di Dmitri, dove mi aspettavano, per un ulteriore scrupolo, feci un tour turistico: vedendo vetrine di negozi che già conoscevo benissimo, bar affollati nell’ora dell’aperitivo, palazzine immerse nel verde della pineta. Una noia mortale e una notevole perdita di tempo.
Ed ecco, a debita distanza, rispuntare dietro me, la solita BMW.
Cominciai a preoccuparmi. Allora ce l’avevano proprio con il sottoscritto! E non ero riuscito a seminarli.
Per caso mi trovavo nella zona meno abitata, dove rigogliosa vegeta la macchia mediterranea. In una curva secca, priva di una lunga prospettiva visiva, inserii la terza marcia e accelerai deciso, per poi sterzare a destra e infilarmi in un sentiero taglia fuoco. Spensi le luci. Continuai così per circa mezzo chilometro. Il fondo sabbioso divenne una trappola insormontabile per la Pandina, le ruote stridevano, fischiavano, il motore gemeva ma non proseguivo. Girai la chiave dell’interruttore, spensi tutto e scesi.
Prima però, afferrai il borsello appoggiato sul sedile posteriore, lo aprii per constatare se il contenuto era tutto presente. Ormai era buio, non si vedeva un piffero, inserii la mano, tastando.
C’erano: due confezioni di fazzoletti di carta Kleenex, non si sa mai, un mazzo di chiavi, due o tre caramelle balsamiche, documenti, portafoglio con cinquantadue euro e venticinque centesimi. Ah si… anche la mia Tokarev.
Costruita nella città di Tula, ex Unione Sovietica, partorita dalla mente razionale di Fȅdor Tokarev, è una semi automatica in calibro 7.62. Può sparare otto colpi, ma poiché ci avevano insegnato a non stressare la molla del caricatore, di colpi io ce ne ho messi sempre sette. Anche sette sono gli etti di buon acciaio balistico di cui è fatta. Arma assai datata tecnologicamente, pesante, superata, ma non la cambierei con nessuna altra al mondo.
è indistruttibile, la mia è priva di matricola e anche di ogni pur minima punzonatura interna. Un’arma fantasma. è priva anche di ogni sicura, bisogna conoscerla bene e io, sin dai tempi della sezione “HVA” (esteri), ponevo la massima fiducia in lei.
Scesi, chiusi la portiera con la massima attenzione cercando di non far rumore e mi guardai intorno. Dove cazzo ero? Il vento freddo da est faceva cadere gli aghi dei pini marittimi, sbuffai e maledissi il giorno in cui avevo conosciuto Dmitri. La sabbia si infilava nelle ciabattine, tra le dita dei piedi, aumentando se possibile, il mio pessimo umore. Pensai:
«Ma non è possibile fare queste cose alla mia età, basta, basta, questa è l’ultima volta, se ci riesco devo andare in pensione. Anche nel mio lavoro ufficiale: l’insegnante, non ero poi molto lontano dalla quiescenza».
Camminai ancora un po’sotto gli alberi dalle chiome ondeggianti e finalmente raggiunsi una strada asfaltata.
Ed eccola ancora li, ferma, la stramaledetta nera BMW, aveva però un solo occupante al volante. Scattai e mi posi dietro un tronco di un grande albero, cercando di guardare meglio da quella posizione riparata e nascosta. Feci alcuni passi felpati dietro al rugoso fusto, e mi trovai a cinquanta centimetri, quasi viso a viso con un tizio. Non saprei dire quale di noi due fu il più sorpreso!
Mi sono rimasti impressi i suoi occhi sgranati e la bocca spalancata. La sua espressione cambiò in manifesto terrore, quando gli appoggiai la fredda Tokarev sulla fronte. In quell’istante si udirono due secchi colpi di clacson venire dall’auto. E quello invece di starsene buono buono incominciò a muovere le braccia e tutto il resto? Accidenti alla Tokarev che non ha una sicura! Vidi un buco piccolino sulla fronte, mentre dietro, sulla nuca, il buco era grande come un limone. Uno schizzo di materia biancastra insozzò quel malefico tronco di pino marittimo.
Poi udii le gomme della BMW stridere sul’asfalto, si dileguò in pochi attimi.

Arrivai a Calle Schumann dove risiedevano i russi con un notevole ritardo. Suonai tre volte il campanello del cancelletto pedonale e ovviamente apparve il Magg… la signora Kozlov. Lei capì subito che c’era qualche cosa di anomalo. Guardando dietro le mie spalle il buio della notte, sibilò:
«Sei molto in ritardo, e la tua macchina dove è? Ti hanno seguito? Hai una brutta faccia questa sera!»
Risposi:
«Si, oggi mi hanno seguito, e questo è niente».

Mi diressi verso lo studio di Dmitri, mentre richiudeva il portoncino dell’ingresso, dopodiché aggiunse:
«Prendo un bicchierino di vodka!»
Non capii se era per lei o per me. Arrivai alle spalle dell’informatico ciccione, esclamai:
«Ho combinato un casino, un grosso casino, mi hanno seguito, e nel bosco ho sparato nella testa a uno».
«Cosa fatto tu? Cosa fatto tu? Ohi… ohi, tu matto tu sempre più matto, adesso cosa fare? Ohi… ohi povero Dmitri».
Risposi:
«Adesso smetti di piangere, andiamo con il tuo fuoristrada e facciamo sparire il cadavere».
«Cosaaa… io informatico, io esperto disinformazia molto bravo, io non fare queste brutte cose, oh povero, povero Dmitri!»
Nello studio comparve il Magg… la signora Kozlov con due vanghe in mano. Rivolta a Dmitri:
«Zitto idiota! Dammi le chiavi della Jeep. Su andiamo, cosa aspettiamo?»

La Kozlov alla guida del fuoristrada trainò facilmente la Panda insabbiata; poi andammo ai piedi del pino marittimo dove giaceva il cadavere, e non fu un bello spettacolo. Lo appoggiammo in una coperta e lo issammo con una certa fatica nel bagagliaio della Jeep. Un braccio a penzoloni usciva dal plaid scozzese e ostacolava la chiusura del portellone. La Kozlov incominciò a sacramentare in russo, diede alcuni colpi al braccio, assai rigido, e questo dopo alcuni tentativi finalmente entrò nell’auto, con il resto del suo legittimo proprietario.
Le vanghe furono utili per cancellare le tracce di sangue sulla sabbia, rimasero a terra solo alcune pigne odorose di resina, all’interno di una delle quali c’erano degli squisiti pinoli. Ruppi le bucce con i denti, li offrii alla donna che li rifiutò sgarbatamente.

Decidemmo di andare verso l’altra sponda dell’estuario del grande fiume. Attraversammo un lungo ponte e ci addentrammo in una pineta dove era anche situato un faro che aiutava la navigazione marittima, soprattutto in notti tempestose e buie come quella. Trovammo il luogo adatto. Quando scesi dall’auto, tremavo, il vento mi tormentava. Il maggiore mi diede il suo cardigan misto lana color rosa. Sul davanti aveva disegnato un orsetto nero, odorava di naftalina. Incominciammo a scavare con le vanghe, lei di gran lena. Quando decise che la fossa avesse una sufficiente profondità, prendemmo la coperta col suo ingombrante contenuto, e ci accorgemmo che in quanto a profondità avevamo fatto un buon lavoro. Non in larghezza. Il braccio sempre più rigido non ci sarebbe mai entrato.
Ci guardammo, io sconsolato, lei disse:
«è troppo tempo che siamo qui, c’è il rischio che ci vedano».
Tornò all’auto, si mise a frugare all’interno. Poco dopo si presentò con un machete.
«Questo viene da Cuba, tagliano la canna da zucchero».
Si mise a dare dei colpi furibondi all’arto ribelle. Dopo qualche scricchiolio il problema fu definitivamente risolto. Potemmo seppellire il tutto. Mentre nel garage di Dmitri con abbondante acqua calda e varecchina lavavamo la Jeep, dal telefono fisso di casa, chiamai Karin.

«Amore sono ancora qui, forse farò tardi».
Da molti anni, quando sono operativo, non porto mai con me il cellulare.

Ho sempre odiato quegli scrittori che a ogni inizio capitolo infarciscono la loro scrittura con descrizioni meteo, climatiche, naturalistiche. “Era autunno e le foglie cadendo picchiettavano il terreno pregno d’acqua e nostalgia per quella inaspettata partenza!” Oppure: “A maggio ritornò inatteso (perché?) l’intenso odore di rose selvatiche dal giardino della signora Jennifer”. Oppure: “Mi sentivo intristito, infreddolito, con ciabatta infradito non consona al meteo avverso che faceva drizzare i peli del culo, esposto com’era a un vento gelido”. Non lo nego, ci mancherebbe, quell’autunno era particolarmente triste e piovoso.
Nella sala insegnanti tra il chiacchierio dei colleghi e la noia per una pausa tra una lezione e l’altra, davanti a un caffè della macchinetta, leggevo con attenzione un quotidiano locale e uno a tiratura nazionale. Niente, assolutamente niente e così da un paio di mesi. Nessuno reclamava la scomparsa di un giovane uomo. Non dico un marito, o un figlio, ma nemmeno un cugino, un amico, un collega, niente, assolutamente niente.
Lo so, lo so, la giornalista Sciarelli ha costruito la sua fortuna con le decine di persone che scompaiono ogni giorno. Ma Cristo, quello non era da solo! Chiesi spiegazioni a Dmitri. Anche lui quotidianamente indagava nella rete, senza il minimo successo, aumentava così, se possibile, la sua angoscia. Gli incontri in mare con il suo bel “uffiziale” come lui lo chiamava, erano così terminati; un po’ per il meteo avverso, ma soprattutto per questo sgradevole incidente. L’unica che non dimostrava la ben che minima preoccupazione era la Kozlov. Continuava a ripeterci:
«A Mosca tutto bene!»
Già a Mosca. Ribadisco, era un autunno particolarmente piovoso. Il grande fiume si ingrossò a tal punto da far paura. Molti paesi si trovarono a esser con le case ben al di sotto del livello della corrente, che trascinava nell’acqua limacciosa, interi alberi sradicati. Se non ci fossero stati imponenti alti argini posti a salvaguardia delle strade e abitazioni, l’alluvione sarebbe stata devastante. Tutta questa forza d’urto d’acqua e detriti, si scaricava in mare, soprattutto quando le maree lo permettevano.
L’estuario con il porto fu colpito, e lunghi tratti di argini e costa sabbiosa furono erosi, spazzati via, scomparsi. Il tratto di costa dove sorgeva il faro fu particolarmente sconvolto dalla furia dell’acqua. Il fiume faceva da confine tra due comuni, due provincie due regioni. Tutte queste amministrazioni indirono riunioni tecniche finanziarie, per valutare l’entità dei danni e bim bum bam, un sacco di parole, come sempre.
Gli assessori ai lavori pubblici, si videro persino nelle trasmissioni di cronaca delle televisioni locali. Mai nei luoghi colpiti da quella imponente erosione.
E venne Natale dove tutti, o quasi, ci sentiamo più buoni. Io e Karin ci scambiammo dei regalini con sincero affetto, anche con la Kozlov ci fu uno scambio di utili pensierini. Lei mi regalò una matrioska; all’interno della bambola più piccolina trovai una stella in ottone dorato, con stampata in rilievo, una bella falce e martello. Io le regalai uno spazzolino elettrico per l’igiene dentale. Mi pare che fu molto apprezzato. Con Dmitri ci fu solo uno scambio di pacche sulle spalle. Epifania ogni festa porta via, e di nuovo, grazie a Dio, un inizio di primavera.
Ero intento nella mia solita lettura dei quotidiani, all’interno dell’edificio scolastico, quando la mia attenzione fu attirata da uno scarno articoletto in ottava pagina.
“Runner in una spiaggia a sud di Rimini fa una inquietante scoperta. Il ragazzo trova sulla battigia, i resti di un povero corpo straziato da una lunga permanenza in acqua. Il corpo era privo di testa e mancava anche l’arto superiore destro. L’unico indizio per un possibile riconoscimento, nell’avambraccio sinistro c’era un piccolo tatuaggio: Una testa di leone di San Marco su di una ancora”.

Che Alessandro Bortnikov, massimo responsabile dell’agenzia FsB non sopportasse quei presuntuosi di militari del GRU era un dato noto a tutti. Questa rivalità tra i due enti partiva dai supremi capi, per arrivare sino alla villa immersa tra i pini marittimi di calle Schumann in Lignano Pineta. Dmitri malediva il giorno in cui si era presentato alla sua porta, con le sue belle credenziali, il maggiore Kozlov.
Lui sapeva di essere uno tra più bravi esperti informatici, sapeva però di aver commesso anche un errore imperdonabile. Aver sposato una donna che assai probabilmente comunicava al Mossad, dati sensibili a lui sottratti. Ecco spiegato il motivo, dopo due anni di purgatorio, della presenza invadente e non gradita nella sua casa, dell’ufficiale e “governante” appartenente agli odiati cugini del GRU.
Dmitri aveva ricevuto ordini criptati, ma assai perentori, di tenere il minimo indispensabile informata la Kozlov, sugli sviluppi della operazione in corso. Una operazione che se tutto fosse andato per il verso giusto, avrebbe fruttato all’FsB la conoscenza di alcuni codici segreti di comunicazione Nato.
La morte inopportuna di uno sconosciuto pedinatore, in una notte ventosa di settembre, aveva minato il buon proseguo di questo progetto, ma da quel cruento inatteso incidente, erano trascorsi più di otto mesi e Dmitri tornò alla carica dicendomi:
«Sabato, io, Karin e tu andare in barca, molto importante, novità, grosse novità!»
«Accidenti Dmitri come te lo debbo dire, il mare non fa per me, e poi tu guidi da schifo, lasciami perdere… mi dirai dopo come è andata».
«Njet, njet, njet vostra presenzia necessaria: è consiglio, ordine, direttiva, preghieri! Bonifici banca Lugano sempre regolari?”

Bevvi solo mezza tazza di tè col limone. Il giorno precedente ero andato dal mio farmacista di fiducia. Uscii dal suo bel negozio che profumava di erbe secche officinali e aveva esposte antiche anfore in vetro, con un sacchettino in cui c’erano delle pillole di antistaminico, di antiemetico e il travel gum.Al mattino con il tè presi subito due pastiglie, poi mi misi a masticare furiosamente le gomme al sapore di menta piperita.
Partimmo, inviai una serie di accidenti al russo. Il porto e lo stramaledetto Smeraldo 37 era la nostra meta.
«Amore, Karin potresti guidate tu? Oggi mi sento un po’… strano».
Quando dobbiamo parlare di lavoro sia io che mia moglie automaticamente, è ormai una abitudine, accendiamo qualsiasi dispositivo disponibile purché emetta musica. Ad alto volume. I Rolling Stones sono molto graditi, ma siamo di bocca buona, purché ci sia casino, accettiamo qualsiasi genere. Non il neo melodico però.
Avevo acceso l’autoradio, una emittente milanese assai demenziale, aveva inondato la nostra Panda con la sua musica, e incominciai una delle mie abituali acide recriminazioni:
«Ma ti sembra possibile che dobbiamo sempre eseguire gli ordini dati da un barile di grasso, abile solo a star seduto davanti ai suoi maledettissimi computers? Cosa mai dovrà fare con la sua fottuta barca? E poi hai visto l’altra volta come navigava?»
Karin:
«Oggi è una bellissima giornata, un po’ di sole e aria di mare ci farà bene. E poi chissà cosa ci dovrà far vedere?»
Arrivammo così al molo, io ruminando le mie travel gum come una capra affamata. Il comandante aveva in testa un cappello con frontino rigido bianco, una maglietta a righe bianche e blu, pantaloni lunghi bianchi. Tra i pantaloni e la maglietta, sul davanti, strabordava una consistente striscia di pancia.
Il Cranchi Smeraldo 37 odorava di pulito, evidentemente da poco era terminato il rimessaggio invernale ed eseguita la complessa manutenzione necessaria per la navigazione. Dmitri:
«Ma priego, salire, salire e togliere scarpe! Visto che belo questo anno mio Smeraldo 37? Fatto riparare anche W.C. chimico, ora tutto funziona, non più intasato, vuoi vedere come lavora benissimo?»
Mi sistemai nell’angolo del bel divano in pelle. Durante le operazioni in porto lui continuamente parlava a voce alta:
«Litigato con bruta strega Kozlov, voleva venire anche lei qui in barca, io non detto niente di oggi, mi guarda storto, molto storto, io paura bere tè a casa mia!»
Parlava, parlava, il sordo brontolio dei motori fu per me una ninnananna celestiale e forse i prodotti del mio farmacista di fiducia agevolarono la chiusura simultanea e quasi istantanea delle palpebre. Sognavo o erano incubi?
Immagini del mio passato volavano velocissime nella mia mente, senza un ordine cronologico preciso. Operazioni o progetti come venivano chiamati nella DDR, avvenuti trenta e più anni prima, si attorcigliavano con visioni e sensazioni assai più recenti.
Quel colpo devastante di pistola a uno sconosciuto, si confondeva con un altro conflitto a fuoco che avevo dovuto sostenere in un cimitero di Parigi. A esser sincero, furono questi gli unici due episodi, in cui fui costretto all’uso delle armi, e meno male! Nella mia lunghissima esperienza lavorativa nei Servizi, la noia, le ricerche d’archivio, le ricerche informatiche, i lunghi appostamenti, sono stati di gran lunga gli aspetti predominanti del lavoro: fatto di banalità quotidiane disarmanti, per niente avventurose. Lo ripeto: è un lavoro noioso, burocratico con compensi economici modesti. Poi possono accadere degli incidenti. Come del resto in tutti i lavori.
Era l’ultimo incidente avvenuto in una notte maledetta e tempestosa che mi inquietava e fomentava gli incubi, durante un pisolino, sdraiato su di un divano, in mezzo al mare.
«Amore… amore, svegliati su dai, ci sono novità»
Era Karin che cercava di svegliarmi scuotendomi un braccio.
Poi continuò:
«Siamo fermi da più di mezz’ora e ora si sta avvicinando una barca, su su in piedi!»
Mi stiracchiai, mi asciugai con un fazzoletto un lieve piccolo rivolo di saliva uscitomi dal labbro e con lentezza mi resi conto dove fossi, cioè nel bel mezzo di una operazione in mare aperto.
Se poco prima fossi stato lucido, avrei notato e avrei sentito Dmitri chiedere a Karin:
«Prendi quela valigetta, conta cinquanta pezzi da cinquanta euro e metti loro in busta plastica».
Mentre Karin contava il denaro, aveva sentito la mano del ciccione che si era appoggiata su una sua natica. Abbandonato, quasi dimenticato sul lavello inox dell’angolo cucina, c’era un coltello stretto-stretto ma lungo-lungo, di quelli che sono degli ottimi utensili per sfilettare il pesce. In un attimo venne posto sulla carotide del comandante, il quale bofonchiò:
«Forse meglio vado a pescare».

Che io non sia un esperto marinaio è un dato accertato.Vidi una barchetta; navigava ad una andatura molto tranquilla. Una di quelle barchette anonime e modeste che probabilmente avranno un nome, faranno parte di una categoria, di una famiglia, che però ignoro totalmente. Molto diversa dal Cranchi Smeraldo 37, molto più piccola, con un motore a poppa fuori bordo che emetteva un rumorino ciuf ciuf, sempre più presente mano a mano che si avvicinava. Un piccolo natante adatto per la pesca, credo, o per portare la moglie a fare un giretto di un paio d’ore. Sempre col mare piatto, com’era quel giorno. Alla barra del timone un uomo, un bell’uomo abbronzato e con gli occhiali da sole.

Dmitri, se non ricordo male, aveva una canna in mano, sembrava pescasse ma non aveva lanciato nessuna lenza in acqua, Karin stringeva un giornale, ma non leggeva, il mozzo, io, su ordine del comandante aveva raccattato una corda… una cima, con l’intenzione di lanciarla allo straniero. Sperando di centrarlo.
Dopo alcuni tentativi maldestri i due natanti furono uniti da una robusta cima. Non prima però di aver messo alcuni respingenti, dei salsicciotti arancioni tra gli scafi per non causare danni.
Mi meravigliai nel vedere l’uomo salire sullo Smeraldo 37 con notevole agilità. Non ci salutammo, lui cercò di sorridere, si notava però che era teso. Dmitri sempre con la canna da pesca, tenuta nella mano sinistra, ricevette nella mano destra un piccolo oggetto. Karin smise di guardare l’orizzonte a trecentosessanta gradi e consegnò una busta plastificata al tizio, il quale ricevette dal sottoscritto una bottiglia di acqua minerale. Ringraziò chinandosi, e con un balzo fu di nuovo sulla sua barca. Allentò il nodo della cima e a voce alta disse:
«Grazie ancora per l’acqua, a buon rendere».
Riaccese il motore e lentamente si allontanò. L’incontro era durato non più di tre minuti. Nessun occhio umano indiscreto vide la scena. Ma fu così anche nei cieli e nello spazio ormai così gremito di oggetti volanti?L’uomo sull’avambraccio sinistro aveva tatuato un piccolo leone di San Marco e un’ancora.