Al ritmo di putipù – Renato Gorgoni

gorgoni
 


 

AL RITMO DI PUTIPÙ

Renato Gorgoni

Samuele Editore 2013, collana Scilla, prefazione di Emilio Isgrò

 

Certo è che una volta mi affidai a lui (quando entrambi lavoravamo alla Rizzoli) perché mi accompagnasse a Fiumalbo dove era in corso un convegno di poeti visivi e altri artisti del genere. Gli chiesi preventivamente se sapesse dov’era Fiumalbo e lui mi rispose che era vicino Modena, ma restando inspiegabilmente nel vago. Così che partimmo alle otto di sera su una macchinetta blu, forse una Cinquecento, e tra una sosta e l’altra arrivammo a Modena che era già mezzanotte.

«Siamo arrivati» mi tranquillizzò Renato.

«Dov’è Fiumalbo?» domandammo al casellante.

«Lassù, tra le montagne…» rispose il casellante.

«Ormai è tardi» replicò Renato . «Chi ce le fa fare? È meglio tornare a Milano».

Con il risultato che mi sono perso la storica manifestazione Parole sui muri organizzata da Adriano Spatola nel segno della poesia concreto-visiva.

E questo, retrospettivamente, mi dispiace non poco, trattandosi di un vero e proprio vulnus nella mia carriera d’artista. Se non che, in quegli anni, le persone perbene alla carriera non ci pensavano neppure lontanamente, orgogliosi com’erano dei loro sublimi ideali di libertà e giustizia, nonché, ovviamente, della fame che ne conseguiva.

Il mancato viaggio a Fiumalbo tramutò d’altra parte in certezza il sospetto che già coltivavo da tempo: che Renato Gorgoni, al di là dei suoi mille, svariati mestieri, fosse essenzialmente un poeta. Certo non inscrivibile (come il suo amico Luciano Bianciardi) in una scuola o in uno schieramento. Ma poeta vero: silenzioso in apparenza, ma di fatto rumorosissimo.

Il che, a rileggerlo oggi, è ampiamente confermato da parecchie poesie pescate qua e là nelle discrete raccolte da lui pubblicate negli anni. In sordina, si capisce, ma pur sempre con un bisogno irresistibile di musica. Sicché una sua vecchia poesia intitolata Nitriti e nitrati (peraltro bellissima) secondo l’autore “è da interpretarsi con effetti sonori”.

Effetti che poi si traducono in grugniti, russìi, sbruffi di cavallo, borborigmi, scorregge e rutti coscienziosamente prescritti alla fine di ogni lassa. Si potrebbe sperare che almeno il fantasma evocato in un’altra composizione sia silenzioso e leggero. Ma quando mai! Anche questo se ne va in giro “con il suo pesante respiro/perché, come si sa, un fantasma/è un fantoccio che soffre d’asma”.

Darei un’idea sbagliata e riduttiva della poesia di Gorgoni, d’altro canto, se mi limitassi a segnalarne lo sberleffo e il pernacchio, magari fuorviato dal fatto che il poeta è napoletano. Condizione che non esclude la tenerezza che portano certi versi d’amore incastonati qua e là come rarissime perle. Come non sono esclusi, dall’orizzonte dell’autore, le citazioni un po’ calligrammatiche un po’ futuristiche (si pensi a Cangiullo) di una poesia come Aria.

Napoli, insomma, è la musa di un poetare solenne e ronfante anche ora che Renato ha scelto la Toscana come rifugio della mente e dello spirito dopo gli anni tumultuosi e folli trascorsi a Milano. Un rifugio dal quale il nostro folletto continua a sparare i suoi petardi con questo nuovo libro non meno rumoroso e avvolgente dei precedenti, Al ritmo di putipù, come se i viaggi per il mondo (e la moglie inglese) non riuscissero a tener fermi i mille diavoli tarantolati che il raffinatissimo, cosmopolita Gorgoni si trascina dentro e dietro da sempre.

Forse da quel giorno che lo conobbi nella mia terra di Sicilia: il sottoscritto diciassettenne, lui dieci anni di più, ma certo già libero e disponibile per un’idea d’arte e di letteratura capace di strattonare i versi compiaciuti di tanti suoi colleghi.

Anche in questa raccolta, per fortuna, non mancano le trappole e i versi velenosi come questi: “Acceso nel suo occhio grigiospento,/ma pallido di cera conformista/il babbeo virtuale internettiano/si bea di tasti, di tin, di com,/di cip, di chat, di web…”.

Tasti silenziosissimi, come si sa, tasti da clinica psichiatrica.

Se non che, quando più non ci speravo, timoroso che il mio carissimo amico Renato si fosse rassegnato al silenzio per ragioni anagrafiche, rinunciando per sempre ai suoi meravigliosi rumori, ho cominciato a leggere La febbre del sabato sera, con l’avvertenza che tale poesia “va letta, gridata, o bisbigliata con un sottofondo di stridìo di freni, fracasso da scontro frontale di auto, gorgoglìo di acqua, sirene spiegate”.

È su questa colonna sonora che agiscono i personaggi del libro: bizzarri elefanti, giraffe raffinate, signorine sdilinquite, segretarie pettorute, vecchietti cacciatori di ninfe e ninfette, e naturalmente lo stesso autore, “un poeta amico/di una rima baciata/molto ben calcolata”.

Forse la rima fiore-amore, la più antica, difficile del mondo come diceva Saba. O forse un’altra rima ancora più difficile che riassume in sé il senso di tutta l’opera poetica di Renato: rumore-pudore…

È dal rispetto degli altri e dal pudore che, trasversalmente, vengono distillati i veleni di queste pagine. Ma perché mai, ora che la stessa politica si è fatta insopportabilmente “trasversale”, proprio la letteratura dovrebbe essere lineare e diretta?

È questa la domanda che il buon lettore si pone chiudendo il libro.

(dalla prefazione di Emilio Isgrò)

 

C’era un poeta amico

di una rima baciata

molto ben calcolata,

di un esimio distico

che era matematico,

di madama metrica

laureata in fisica

e della prosodia

dottore in biologia,

insieme alla poesia

auscultavano

il cuore della gente,

scientificamente.

 

A un utente del traffico urbano

che sembrava più alla mano

un signore molto cortese,

abbassò il finestrino e chiese:

«Lei per caso non sa

qual è la via per l’aldilà?»

«Giri a destra, le conviene,

incontrerà un gentiluomo

invisibile, molto perbene,

il favoloso cancro al benzene».

 

C’era una segretaria pettoruta

ch’era una gallinella assai cocciuta

arrivò il capo tutto trafelato,

«Mi insegue un impiegato assai incazzato!»

in quell’attimo entrò quel forsennato

«Fermo!» gridò lei facendo scudo

tutta furente col suo seno nudo

in difesa del capo intimidito.

 

C’era un governo di commistione

PD-PDL più estrema unzione

un ministro leggiferava

un altro al contrario sgarrupava

tutto cambiava e si arenava

mentre la gente contando spiccioli

si ingrassava mangiando trucioli.

«Fermi tutti!» disse una voce,

preso ha il governo una decisione,

ha istituito la grande festa:

suicidio in massa per la nazione.

 

Non si offende un bassottino

che ti ringhia da nanetto

che sia biondo o sia brunetto

è pur sempre un botoletto

che ha bisogno del suo tacco

spesso e grosso non da scarpa

ma da mente. Mezzo metro con un tocco

riuscirà quel bassottino

a mostrarsi intelligente?