Ho sempre pensato la poesia come un dialogo a distanza, dove l’altro è necessario ma assente, e allo stesso tempo non necessario ma presente. Perché la poesia, quando vera poesia, prescinde dall’autore e si concentra sull’interlocutore avendo bisogno di lui, pena l’inconsistenza del dire. Ma allo stesso tempo la sua non presenza amplifica il dettato divenendo tratto indispensabile e verticale, un affondo. Insomma si scrive poesia quando si parla a qualcuno che c’è, ma solo se non c’è.
E poi il problema del cosa dire, tema enorme, molto spesso abusato ma importante. Perché se lo stile è portatore di significato al pari del significato stesso, ciò che un testo dice è la colonna portante, il cemento con cui si costruisce la struttura. E cosa deve dire la poesia?
Uno degli obiettivi di un testo, sempre a parere di chi scrive, è l’interpretazione e la testimonianza della realtà nella quale l’autore vive. Non è certo il suo unico significato possibile, ma dall’avvento dei Social e della tipografia digitale abbiamo visto emergere tutta una serie di autori autoproclamatisi sorretti da piccole combriccole di elogianti. Ma la realtà resta quella di sempre: se si cerca il favore dei mediocri bisogna dare loro qualcosa di comprensibile per loro.
È poesia questa? O è una possibile poesia? Personalmente non lo credo, e pur essendo il mio punto di vista opinabile (per definizione) bisogna considerare un dato di fatto che viene dalla storia recente: il largo pubblico lo si può incontrare abbassando il proprio registro al loro, oppure lo si può educare.
Questa affermazione parte ovviamente da un paradosso: oggi abbiamo maggiori strumenti ed opzioni e molta meno cultura. Questo è un paradosso che l’attuale quarantena ha messo bene in evidenza, pur in un altro ambito. Pensavamo infatti d’essere forniti di una tecnologia avanzata, futuristica, eppure passiamo le nostre ore di lavoro a dire mi senti? Non ti vedo bene. Non ti sento più. Cosa hai detto?. Ci siamo accorti che la realtà non è quella che effettivamente pensavamo di avere.
Così la cultura. Abbiamo una percezione di ampia cultura, di possibilità infinite grazie (prima volta nella storia umana) alla rete, eppure nell’applicazione quotidiana gli esiti di questa sono ben pochi, e magri. Si pensi ad esempio al razzismo che negli ultimi anni ha vissuto nuova vita qui in Italia.
In tutto questo la figura del poeta, il poeta vero, assume i doverosi e necessari connotati di un interprete. Non è più un vate, un sacerdote della parola, non è colui che scrive cose piacevoli, emozionanti (sia lasciato questo al consumismo della transitorietà, dell’effimero), ma colui che cerca di assottigliare lo scarto di cui sopra. Che cerca di far aderire quanto più possibile percezione a realtà.
Questa azione ha un nome ben preciso: consapevolezza. Al poeta oggi si chiede di comprendere, attraverso strumenti acquisiti tramite studi ed esperienze, il contesto in cui vive. E questo non prescinde dall’io, si presti attenzione, perché il poeta stesso è persona che vive in un dato luogo e periodo. Ma è suo dovere (perché ogni buon poeta sa che scrivere non nasce da un’esigenza, ma da un’assunzione di responsabilità) tentare risposte a domande che non sapevamo, o non volevamo sapere, di avere.
Anche in questo caso bisogna però aggiustare un po’ il tiro, perché nelle lettere quanto nell’umano non ci sono formule esatte, non ci sono libretti d’istruzione. E le risposte che il poeta può dare non sono soluzioni né definizioni. Ma già riuscire a comprendere un dato momento esistenziale, o sociale, significa andare oltre l’immediato, il superficiale, e affondare in una concretezza che regola a tutti gli effetti la nostra vita.
La poesia ha questo compito, e lo ha avuto specificatamente in Dal sottovuoto – Poesie assetate d’aria curato da Matteo Bianchi per la Samuele Editore. Un’opera che nasce come un dialogo tra Matteo e gli autori, e non di rado tra gli autori stessi. Un’opera che proprio attraverso il dialogo tenta di fotografare il più onestamente possibile, il più umanamente possibile, non la quarantena ma l’uomo di oggi in quarantena.
Perché il mondo è improvvisamente cambiato, si è mosso più velocemente di noi nonostante stessimo correndo verso una sottile autodistruzione, nemmeno troppo inconsapevole. Già da anni avevamo capito che il sistema economico non era sostenibile, che la vita stessa (sia lavorativamente sia relazionalmente parlando) non era più a misura d’uomo. Ma abbiamo avuto bisogno di un virus che all’inizio ci è parso innocuo, poi tremendo, per farci fermare.
E ci siamo fermati, abbiamo dovuto fermarci. Ma da cosa? E se ripartiremo verso dove correremo? E oggi? Cosa esattamente stiamo vivendo o meglio, come esattamente stiamo vivendo? Questa sono le domande che i 35 poeti dell’antologia si sono posti. 35 tra i migliori poeti viventi. Di certo non tutti, come è giusto che sia. Un libro è un’entità finita che non può e non deve (pena l’effetto Parola plurale) debordare nell’eccesso. Ma in questo caso nemmeno nel difetto, altrimenti la fotografia del tempo ne sarebbe risultata compromessa.
Alessandro Canzian
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