Lancio qui alcuni pensieri che mi ha scatenato la lettura di un libro che per certi versi si può considerate un divertissement, ma assai piacevole e ben fatto, com’è appunto Parole a Matita, di Massimo Klun per i testi e Maurizio Stagni per i disegni, edito nel 2020 da Samuele Editore.
Primo pensiero. James Joyce, che amava i versicoli, le canzonette, i doppi sensi anche scurrili, lo avrebbe di sicuro apprezzato. A lui sono, infatti, dedicate le ultime pagine del volume, in un dichiarato e doppio omaggio, 1) al grande autore che li ha ispirati con la sua carica più estrosa e giocosa, e 2) alla città di Trieste, dove i due autori vivono.
Secondo pensiero. Che libro è, questo? Pochi giorni fa, parlando con la redattrice di un blog di poesia fra i più seguiti, lei stessa si lamentava di quanto a volte sono conservatori, nei gusti, i Soloni della poesia. Non solo nella predilezione di un registro monocorde e spesso drammaticamente esistenziale, ma anche nella forma stessa del libro. Un libro di versi con le immagini (foto o disegni che siano) è già di per sé, nell’accezione comune, un libro a metà, dunque al ribasso: se l’immagine non è più solo di contorno, allora il libro puzza di contaminazione, di meticcio, di qualcosa che forse (atroce dubbio!) senza quell’immagine non funzionerebbe. Questo si pensa e allora si punisce il libro nella sua interezza, per punire il poeta che ha barattato la purezza della Parola per prestarsi all’espediente frivolo della illustrazione.
Terzo pensiero. Che succede in questo caso? Non solo il linguaggio visivo di Stagni, versatile e istrionico, è imprescindibile, ma buona parte del fascino del libro viene proprio dai suoi disegni e dal vivace dialogo coi testi. Di contro, la parte scritta nega schiettamente, pur essendo in versi, la propria dimensione di poesia, con Klun (che ha letto assai più di quel che dice e) che fa della propria sciatteria un vanto, a metà fra la più classica posa scapigliata e certo Bukowski alcolico (anche lui citato con affettuosa irriverenza).