Canzoniere inutile – Alessandro Canzian

978-88-96526-06-4

 

ESAURITO

 

Già il titolo dice una dispersione, una labilità temuta, misurata. Il libro intero è il frammento di una percezione, dove il vuoto sprofonda nel vuoto in una vertigine che attrae verso il niente.
L’attrazione del niente e la propensione a negare si spingono a dismisura, così da rendere la stessa divinità “triste come un uomo”, la vita come “il guado di uno stagno”, inutile il sesso, vano l’amore, il disamore “unica certezza”.
Tutto quanto appartiene al mondo, privato del suo peso ma non delle sue ombre, si mostra triste e confuso “ruggine mutilata / dentro il cuore”. Ma è proprio il cuore a contraddire la negazione, se ancora si presenta come il centro della psiche, il motore pulsante del sentimento.
In più degli annientamenti che hanno percorso l’intero Novecento, e di cui la nostra poesia s’è ampiamente nutrita -se pure in questa raccolta di versi tutto appare inadeguato al desiderio che perpetra le sue attese; anche se la memoria si strema di eventi minimi, per oggetti consunti, laceri; e la vita intera assomiglia a un esilio- la voce che qui si pronuncia continua a porsi domande, a tentare risposte. Allora nel chiuso di una stanza, un gesto, un oggetto, divengono particelle di un’esistenza protesa incontro alla speranza. Allora lo stesso dolore s’ottunde in una pena senza gridi né lacrime, che non smette di attendere anche quando più si prefigge una definitiva quiete. “Finisce l’uomo, non la sua penombra”.
Ci si soffermi su questo piccolo gruppo di versi: “Una mosca, un capello, una eco / atterrita tra le gronde e le perline / d’un colloquiare senza fine / -la tenda e dopotutto un gesto / quasi privo di saluto-. / In fondo è proprio il mondo / il solo bene che non abbiamo.” Vi si coglie la tenerezza dello sguardo, la grazia degli oggetti, un grano di realtà trattenuta, e solo in chiusa la denuncia che è anche un lamento, ma che a saper intendere significa piuttosto la pretesa del volere tutto senza darsi, ed è il residuo di un antico equivoco possesso. Mentre all’uomo tocca discendere nel mondo unendosi e confondendosi con ogni altra creatura e con ogni oggetto e aspetto. Non è in questa difficoltà il fondamento di tanto dispiacere?
E non è un lutto indifendibile quello che annera anche il ricordo e spegne il passato nella paura di un presente da valicare e di un futuro da affrontare?
La poesia afferma anche quando nega, cancella per reinventare, si libra oltre l’angoscia e la disperazione se libera il dolore e lo piega in parole che affida all’essere e ai suoi infiniti mutamenti. Che altro fa Alessandro Canzian nella musica lieve di questi suoi versi: “…con la grandine negli occhi. / Potessi così discioglierne un sorriso / e berne dal vuoto d’una bocca / il succo -il buio sfolto d’un giardino / tra rane e rondini essiccate- il resto / della vita sfarebbe in un’immagine / scarna, scabra e appena amara, / e solo un poco stinta dalla pena.”

Elio Pecora

 
 
 
 
Rimpiangerò il tuo sesso, e altro,
come chi non vuole il desiderio
se non per trarne qualche spina
nel roveto dissecato
che è la vita –perché il bene
non sempre serve
a rendere l’uomo più felice-.

 
 
 
 

Ma di quest’infelicità non parlo.
La scusa di vivere non basta
oltre una musica e una tenda
smangiata da memorie
in festa –una muffa, uno strappo
distratto, in fondo è quanto
necessita l’anima a ricordare-.

 
 
 
 

E così esausta a lato parlottando
tra le cartilagini d’un vento
-le unghie spezzate dalla nebbia-
inverosimile ammetti che la vita
non ha il senso d’una riva, ma più
d’un guado, raffermo, d’uno stagno.
Inverosimile ammetti che anche Dio
può essere triste quanto un uomo.

 
 
 
 

La vita è un tempo che ridonda
sempre pari nel suo vuoto. Così tu
dolce apparsa in una pioggia
d’una sera inattendendo. Perché il
vuoto non pesa più del pieno
quando togli le scarpe e già sappiamo
che significa l’amore.

 
 
 
 

È tutto inutile questo mio canto tra
i tuoi capelli intramontanti e
il loro dolce e aspro misurarsi, alti
e fondi come parola che ruscella.
Piano mi dimentichi e rivivi
le tue estati tra la gente ed i conigli
-mentre stesa sul divano t’abbandoni-.
E ridi, o almeno così ti penso.