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Scrivere haiku significa praticare la meditazione.

In occidente meditare implica per lo più pensare; salvo alcuni filosofi legati alla teologia apofatica di Meister Eckhart, secondo il quale di Dio possiamo “dire” unicamente ciò che non è – mentre l’Essere resta ineffabile e indicibile in quanto essenza – e salvo i neoplatonici (Plotino), il nostro approccio verso la conoscenza, meglio sarebbe dire sapienza sophia, è di tipo logico razionale. ‹Ragionar d’amore› afferma perfino Dante il visionario in un noto sonetto.

Per l’oriente vale esattamente il contrario: meditare è pura contemplazione, significa vuotare la mente del pensiero discorsivo affinché lavori in noi la buddhi o buddhità, che possiamo tradurre con intuizione sovrarazionale, illuminazione.
In giapponese il termine è zenZen è lo stato estatico da cui nasce la poesia del genere haiku, impregnata dal Qi, energia cosmica.
Luigi Oldani pratica questo genere di ascesi ed è “poeta haiku”.
Aggiungiamo, tanti per non perdere il buon vizio del ragionamento (non sempre buono, può diventare rigidità e dogmatismo), che il termine haiku significa “profondità misteriosa”, eppure questi poeti così parenti della gentilezza parlano della superficie del mondo, di quanto appare e scorre. Sono divinamente leggeri e “superficiali”. Ma non sono neppure descrittivi! La descrizione implica sempre due soggetti separati, chi descrive e la cosa descritta; di nuovo si cade nel frazionamento della realtà, in una forma sottile di alienazione da sé e dal mondo. Con l’haiku percepiamo ‹il battito cardiaco dell’universo›, come scrive Paolo Lagazzi, prefatore di un “libro haiku” alogico o oltre la logica, Come ventagli di Luigi Oldani (Samuele editore, 2019, p. 64).

Il ventaglio è un oggetto simbolo della cultura giapponese, si apre con un gesto istantaneo ed ecco l’attimo, ecco il quid, ecco il battito, lo scorrere del Tao, la via, la vita UNA.
Accostiamoci a questi testi con la dovuta meraviglia:

‹Rimango in piedi / all’erba falciata /…una preghiera›.

Possiamo chiederci: perché una preghiera? Pregare non è forse stare presso a, essere insieme a, accorciare le distanze, eliminarle del tutto per essere presso Dio? Comunque si concepisca Dio. Apo theòs, apoteosi. Preghiera non è forse l’abbraccio?

‹Il gelsomino / offre il suo profumo / vecchio l’alloro›.

E se il gelsomino offre il suo profumo, non si espande forse ovunque il profumo, da invadere, ringiovanire anche l’albero vecchio? Il fiore giovane e l’albero vecchio non sono distanti. Quanta comunione, quanta dolcezza.

Graziella Atzori

 

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