Corpi solubili
Mario De Santis
Pagine 102
Prezzo 13 euro
ISBN 978-88-94944-88-4
Tra dissoluzioni e discioglimenti, la poesia di Mario De Santis certifica la provvisorietà del nostro tempo, in una sequenza incalzante di triloghi tra realtà, rappresentazione e metafora. La testimonianza è la cifra – privata eppure collettiva, civile – che assume in sé con i toni di un “bilancio finale” costruito su una sequenza di figure e immagini potente per precisione d’analisi e puntualità del linguaggio. Un affresco consapevole della provenienza quanto incerto nella destinazione: sintesi perfetta di quanto ciascuno di noi si trovi ad attraversare nel presente, non sapendo se – guadando l’acqua bassa del nostro fiume personale – ritroveremo intera sull’altra riva la carne – vera e simbolica – che avevamo in origine, oppure se questa sarà stata sciolta, solubilizzata dalla Storia di tutti e dalle storie individuali. L’ultima poesia di questo libro è lasciata “non-finita”, sospesa nel verso tronco. Apre sul vuoto, baratro o forse tra segni non visibili a stampa, spazio tra parola e parola come i codici digitali che le compongono. Senza altre parole a seguire, resta aperta la scena.
Posata a terra la spesa di stasera
tra due voci a interrompere infiniti:
“Sei abile a sapere, non sai stare”.
Così, a fare ostacolo ai saluti che slittano in domande
sottese, in serate illuni che ci sembravano più facili,
mai state meno di un futuro possibile,
la carne fredda consiglia una rinuncia: al domani.
Si smette di scommettere, da fermi,
mentre l’albergo di una sera convince nell’invito.
Andare fu più fragile. Nessun figlio era previsto.
“Mangeremo ciò che c’è, saremo pronti a ballare
le cose impossibili eppure istantanee, solubili nel tempo”.
Noi, costretti qui, abituati all’inagibile, ad abitare
scale, dietro porte senza nomi e interi piani a mezza luce,
portiamo piatti, da bere è già nei bicchieri,
prepariamo tavoli che ci raccolgano in biografie di lampi,
definitive, atti mancati, automatismi a caso.
L’obbligo a seguire, della storia, ciò che se ne genera
non interessa più a nessuno, nemmeno a noi la nostra.
Le previsioni meteo alla tivù sono l’unica trama: la tempesta
dura da ieri, non era attesa e non era nemmeno un futuro.
Saremmo stati matti a dire più parole di queste, vicini
come gli imbucati in una stessa festa.
Stiamo con chi ci somiglia con chi è probabile
non avrà figli e dipenderà da cure di altri, ma che al momento
sono ignoti. Tracciata l’infanzia, nessuno passa. Si aspettano risposte non nate da domande,
pensando quel che non verrà mai detto
ascoltando quello che è solo pensato.
A chi abita nei pressi del Monumentale manca
la parola cimitero. Si scende alla stazione sotterranea
senza malanni, né bende, tra scheletri di geometrie. Il nome
è quello (un aggettivo) e fa della morte un eroismo in fototessera;
i cittadini laboriosi (ora da Cina, dal Marocco) si tuffano davvero
nella terra guasta di Milano; sotto si viaggia sereni,
sopra la disfatta dei visi di marmo e calce, una galleria di morte
senza orrore. Qualcuno lava il pavimento (le tombe sono case),
ci si arriva tutti insieme, alla velocità che ha avuto il Novecento; l’Isola
dei morti, vicina (i vivissimi e ubriachi, i turisti di sé) parlano
urlate psicologie, esotismi. Se possiamo scegliere l’uscita, l’obbligo
è rimanere nella vita, nonostante si sosti tra i dimentichi
di tutto: del capolinea, dove non siamo stati mai;
del conseguito sangue, atteso in senso inverso
che invece non verrà; del fatto che sia tardi.
Alberi e filari, una rete della prigione alla terra
tocchiamo lo stesso l’assurdo dei climi, ad ore inverse,
a vederli fiorire per forza. Ma non c’è amore, solo acume
in questo paesaggio spezzato, quest’agro impegno che diamo
al sottosuolo, quest’uso del concime come una violenza,
il prelievo di ninfe, fantasmi e minerali – è tutto un avvenire
bellissimo in foto, che si sgrana in chimica. (Più vivo il “dopo”
di forre e pezze d’orti sull’Aniene abbandonate, con secoli
di mani nostre, lasciate andare, dimenticate: i veri passi
dove coincide domani e mai più). Anche la scorza petrosa
di argille, il loro impasto di bruni di ruggine, il guano,
avrebbero scelto la stasi eterna e spontanea, se solo interrogati
o trent’anni di niente, libero, l’intero giro di una vita che si scioglie,
senza la geologia crudele e lenta di nascite e inganni.
Nell’apparire di foglie e giardini, nei discorsi delle bocche
che torna a fare del seme un rimpianto, c’è solo tortura.
Nell’abbandono, finito di generare il verde, di sputare
germogli (tutti figli di massacri e creazione) cade
l’impossibile, che inventa ciò che non ci rassomiglia.
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