Anche la letteratura moderna e contemporanea è costellata da una serie di splendidi bestiari. Penso in primis al Bestiaire ou cortège d’Orfée di Apollinaire e alle Bestie di Tozzi; oppure al Manuale di zoologia fantastica di Borges e Margarita Guerrero. Anche il Suo ultimo libro, Culo di tua mamma (Samuele Editore – Pordenonelegge, Gialla oro, 2022), imbocca tale direzione. Presentandosi come una (auto)antologia, il Suo Autobestiario è un castello in cui talvolta si manifestano dei «fantasmi ormai troppo lontani/ per poterli ancora immaginare» (p. 83). Che valenza può avere il ricordo, ora che le persone assomigliano sempre più a «puri ectoplasmi, fisionomie virtuali/ non di esseri umani ma di cani» (p. 83)?
Vernalda Di Tanna
Intanto grazie della sua curiosità e della domanda che mi pone. In prima battuta, devo dirle che tutto è avvenuto per caso: verso la metà dello scorso giugno 2022, gli amici Gian Mario Villalta e Alessandro Canzian mi hanno proposto di partecipare con un mio volume di versi alla collana Gialla Oro che la Fondazione Pordenonelegge ha affidato da un paio d’anni a Samuele Editore. Io avevo i cassetti dove conservo gli inediti che vengo componendo abbastanza vuoti, perché nel ’21 è uscito un mio libro impegnativo, L’isola dei topi, nella prestigiosa collana “Bianca” di Einaudi. Tuttavia la proposta dei due compari di poesia era molto intrigante, perché non mi chiedevano un libro generico, bensì un libro monotematico.
Così, d’acchito ho risposto che mi sarebbe piaciuto comporre un Bestiario, includendovi qualche poesia del passato, qualche inedito (che sapevo di conservare in un angolo segreto del cassetto cui ho fatto cenno prima) e qualche traduzione. I due furono entusiasti della proposta, ma mi diedero una scadenza ravvicinatissima: dieci giorni al massimo, dal momento che intendevano uscire per il settembre successivo, quando per l’appunto si svolge la kermesse di Pordenonelegge.
Quello stesso pomeriggio, sono entrato insomma nel tunnel di un trip compositivo e ordinatore mai sperimentato prima e – dopo otto giorni di lavoro matto, notturno e disperatissimo – ho consegnato ai due committenti il volume Culo di tua mamma, che riprende nel titolo un verso di Charles Bukowski dedicato all’ippica, sport e motore di un rapporto con i cavalli da corsa che mi appassiona e mi attrae fin da quando ero bambino: proprio loro, infatti, incarnano da sempre gli animali più degni di passione. In una parola, l’elemento unificatore di questo libro (nel quale riconosco alcuni dei motivi e degli esiti migliori della mia scrittura poetica) risiede nel capovolgimento del prevalente uso letterario degli animali nel tempo lungo della storia occidentale, dalle favole di Esopo e Fedro fino ad Alice nel paese delle meraviglie e a Pinocchio, ma anche oltre, fino a Rodari e a Scialoja.
La via maestra era quella di un’umanizzazione più o meno esplicita delle proprietà animali e di una esposizione più o meno parodica di vizi e virtù del genere umano, proiettata su una serie di comportamenti animaleschi evidentemente permeati da peculiarità caratteriali e psicologiche di per sé umane. Rileggendo alcune mie poesie del passato più recente insieme con quel blocco di una trentina di inediti che erano andati a rintanarsi nel cassetto segreto di cui sopra, mi sono accorto che – al contrario – gli animali che facevano sempre più spesso capolino nella mia poesia erano portatori della procedura opposta: e incarnavano quel processo di animalizzazione dell’umano che mi sembra sempre più diffuso entro la nostra civiltà di massa, meccanizzata e informatizzata, ma anche sempre più spietata, belligerante e “vuota” di spiritualità e di comunità.
Quanto alla specifica poesia sulla quale mi interroga, Un ritratto cubista, le dico subito che è una delle più complesse, più allegoriche e più difficili da scrivere dell’intero libro. Il tu col quale dialogo io che parlo è mia moglie, durante un aperitivo preso insieme. Eravamo nel dehors di un bar della periferia di Modena, dove abitiamo. Nel tavolino accanto, si dimenava un grosso cane, a stento trattenuto dalla sua padrona: uno dei molti punti in comune che lega mia moglie e me, dopo quarant’anni di storia comune (anche se non sempre lineare), è la predilezione per le gatte. Conseguenza diretta: finché ci sarà dato di vivere avremo sempre una gatta per casa e mai un cane. È questione di attitudini, movimenti, orari, perfino di odori. E c’è poco da fare: la contrapposizione simbolica, estetica, antropologica fra cani e gatti non è un’invenzione favolistica o proverbiale, ma un fatto acclarato.
Così, mentre mia moglie cominciava a sentirsi un po’ a disagio, per l’esuberanza del cane, io ho fatto viaggiare la mia immaginazione da un lato verso il cane più veloce che ho visto in vita mia, una sera d’estate del 1977 al cinodromo inglese di Wimbledon; e dall’altro verso certi cani letterari, un po’ araldici e leggiadri (come in certi passi del Decameron); e un po’ invece crudeli, come nell’Inferno di Dante o come nel magnifico romanzo del nostro amico Daniele Benati, per l’appunto intitolato Cani dell’Inferno. Le strofe dedicate a Dante e a Benati sono saltate perché non abbastanza riuscite, ma questa poesia rappresenta pur sempre il massimo che la fantasia animalesca del mio Autobestiario ha potuto permettersi in fatto di cani. Grazie ancora della sua lettura e del quesito.
Alberto Bertoni
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