I bestiari letterari, ‘contenitori’ ancora sottovalutati e che meriterebbero invece una maggiore attenzione anche della critica letteraria, sono rintracciabili in diverse opere di poeti classici e contemporanei: è il lancinante richiamo di un dialogo, del tentativo di una seppur velata conversazione con l’altro da noi, con creature che popolano in pari dignità l’universo e con cui condividiamo un’esistenza unica in tutti i sensi. Attraverso i bestiari è possibile altresì (ri)scoprire noi stessi: l’essere umano rinviene nell’animale quella coscienza di sé talvolta smarrita, riscopre la compassione, muove a gentilezza certo tempo infausto. Un’opera che si presenta completa e orientata in questa direzione ci appare quella di Alberto Bertoni, sollecitata in tal senso da Gian Mario Villalta, che riesce sempre a sorprendere con la freschezza e la precisione nella sua produzione.
Sotto le insegne di un binomio ormai felice e collaudato quale Samuele Editore-Pordenonelegge è apparso nel 2023 Culo di tua mamma – (Autobestiario, 2013-2022), titolo evidentemente ripreso da una poesia di Charles Bukowski, che s’impone all’attenzione per il fluido narrare, in un tripudio di immagini e di figure, di evasioni mentali e di sguardi accorati sull’epoca post-moderna. Una miriade di suggestioni e di echi dei poeti che hanno inciso nella storia sono qui rintracciabili mentre il peregrinare da un luogo all’altro, da una città all’altra (come in un viaggio-passaggio reale e metaforico insieme poiché il topos in questo poeta ha un valore predominante), dal tempo dell’infanzia all’oggi, segna il ritmo tambureggiante, s’allaccia a una descrizione-interpretazione sempre efficace degli accadimenti e nei quali, tra le righe, emerge un denso sostrato di riflessione, di Weltanschauung.
È un poeta colto Bertoni, e non perde occasione di dimostrarlo, ma questo non gli impedisce di affacciarsi anche sui territori più popolati e spesso banalizzati (l’amore, il tempo, la vita) con un’encomiabile sagacia e umiltà di fondo, scevro da retorici esercizi di stile o manierismi e lanciando vieppiù affondi nel ‘suo’ dialetto, così corposo e colorato. Carpe diem, ci sembra dire lui stesso nella cangiante, mutevole esistenza che gli è stata data in sorte: è un attimo che si eterna quello del «signore del Piuttosto», in balìa del vivere e del morire, in perenne tensione tra asocialità e solitudine, «creatura come tutte le altre», capace però anche di divertirsi à la mode dei Futuristi. Nell’Autobestiario s’assommano generi e specie, famiglie e ordini come in un’ideale foresta, tra animali domestici e selvatici che metaforicamente rappresentano una parte di sé e in cui è possibile persino tramutarsi in figlio e padre di un altro essere vivente (la larva, nella fattispecie) prima che la quotidianità svelli ogni immaginazione creativa. Nella semplicità delle cose quotidiane si rinviene una certa qual sacralità che è germe fecondo per uno sguardo sincero e appagante di introspezione fondato sulla memoria ch’è però labile e corruttibile. L’animale assurge in Bertoni a elemento funzionale e strumentale a una critica della società imbevuta di edonismo e chasse au bonheur, lontana da ogni riflessione sulla deriva ormai intrapresa.
«Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre ma nell’avere nuovi occhi»: è la ben nota espressione attribuita a Marcel Proust e nel poeta modenese essa trova ulteriore fondamento, basti citare «l’unica vera novità di Venezia» tutta racchiusa nell’implacabile presenza dei gabbiani in volo, predatori e dominatori del luogo(«conquistatori come mai / mi erano sembrati») o le corse di cavalli che «mi riportano al mio disordine», metafora costante sui ritardi accumulati or qua or là. E come per lo scrittore francese anche qui siamo di fronte a un «tempo ritrovato», quello che il lettore può cogliere dove il reale e l’immaginario si sovrappongono, «dialogano» e finiscono per coincidere: riscattare la propria fragilità, il senso del dovere, una «gioia leggera» non rappresenta un compromesso con la propria esistenza bensì suggella il viatico ideale per vincere disincanto e disillusione. Il libro ci delizia sprigionando versi che nello screziato paesaggio naturale riportano le lancette al tempo anche alle contestazioni di antica data per rinverdire la memoria civile: «L’unico modo per lottare», nel caso del Nostro, «è prima poesia che azione».
Dunque, il poetare come fondamento, come molla scatenante ben più d’ogni arma, compresa quella ideologica, l’ardore studentesco-identitario, intrisa di quella che chiamiamo passione «non cieca, ma visionaria». E se quella era pur sempre un’epoca di forti contrapposizioni ideali questa Italia finisce per apparire una sorta di betoniera dove tutto viene fagocitato (ci conceda questo prestito il padre del Realismo Terminale, Guido Oldani), «un va-e-vieni di marea».
Federico Migliorati
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