Da capo al fine
Maria Milena Priviero
Samuele Editore 2016, collana Scilla
prefazione di Silvia Secco
pag. 66
Isbn. 978-88-96526-77-4
ESAURITO – IN LIBERA LETTURA QUI
Da Capo a Fine:
il moto circolare della memoria e della poesia
Scrive Alberto Bertoni in La poesia contemporanea (Il Mulino edizioni, 2012), che “la memoria di un poeta è tutto: la memoria che il poeta riceve, la memoria che il poeta trasmette”, ed in questo piccolo scrigno di versi, seconda raccolta poetica edita per l’autrice di Pordenone, dopo Il tempo rubato (Samuele Editore, 2013), Maria Milena Priviero affida appunto alla memoria la cifra stilistica della propria narrazione poetica la quale, per sua natura, rifiuta la linea temporale – caratteristica della prosa – per sgranarsi, velata dall’emotività e dalla lontananza del ricordo, quasi come una corona di rosario.
Se, sempre citando Bertoni, intendiamo anche etimologicamente il Verso come un “volgere”, un infinito tornare indietro, ecco che il titolo di questa raccolta si chiarifica nel suo senso musicale di reiterazione: “Da capo al fine”, appunto, che non intende condurci ad alcun luogo d’approdo in maniera lineare, ma che circolarmente, continuamente, ci propone di ricominciare. Si tratta, come dice l’autrice, di un “infinito lato del finire”: una litania di ricordi di voci, visioni, sentimenti e vissuto, che attraverso la delicata traduzione poetica rinominano un “piccolo mondo antico” senza però costringerlo a ritornare del tutto in superficie, per lasciarlo lì, in una smorzata e calma luce che non vuole per forza delinearne in maniera plastica i contorni e che quasi lo tutela, nella sfera della verosimiglianza, dalla crudeltà del reale. In questo senso il microcosmo di Da capo al fine, se pure descritto, è un giardino segreto, che un tempo è stato consistenza di nomi e cognomi, parentela, stagioni, luoghi fisici ed abitanti dei luoghi, e che ora l’autrice ci permette di sbirciare (“Li vedo i giorni alle spalle / in dissolvenza”) come da una breccia della recinzione, da un minimo spiraglio, per il quale ciò che ci è consentito di guardare ci appare nuovo, diverso: “Eppure c’è un luogo / dove vorrebbero posarsi, tornare / sulle rive di un fiume un lago, / di uno stagno se non del mare”.
Le trentanove poesie di Da capo al fine definiscono, con una limpida ed al contempo soffusa capacità descrittiva priva d’artifici retorici – dove “l’ombra era ombra, nitida / senza sfumature e il verde / era verde, secco nell’erba / e la nuvola era bianca, bianca / nell’azzurro” – un vero e proprio stato in luogo, dal quale non ci allontaniamo veramente mai. Il luogo fisico ed insieme emotivo di questa raccolta poetica è, infatti, quello circolare di un lago: il piccolo laghetto della Burida a Porcia, vicino Pordenone, luogo d’origine e di ritorno – anche biograficamente – di Maria Milena, dal quale è visibile la sua casa (“In fondo è sempre ritorno / un luogo”) e che si fa culla del ricordo, utero nativo di gestazione poetica, punto di chiusura del cerchio e nuovamente capo di ripartenza. Sulle rive di questo minuscolo tondo d’Arcadia dall’acqua quieta, quasi la vediamo camminare lentamente (“chè lei era così / sempre un po’ distratta / sempre un passo avanti a se stessa”); quasi vediamo ciò che la sua memoria vede: una donna, di spalle, a volte bambina (la bimba di “Trasloco”), a volte matura signora del presente (“Così alla fine sono qui / con le mani nella terra / a interrare i germogli”), altre volte “signorina” (la splendida ragazza della copertina e di “La sera prima”), che ricorda il proprio vissuto, e che a volte si siede, ricordando, “abbracciandosi i ginocchi”, quasi a difendere la propria visione dal pericolo del nuovo (“questa voglia di restare alla finestra / questa voglia di quiete di assenza / sommessamente mi fa chiudere la porta”). Nomino volutamente l’Arcadia, a definizione di questo luogo reale ed immaginario, in quanto contesto classico di pacificazione e terra quasi mitica d’armonia, poiché qui si colloca anche la peculiare caratteristica della poetica di Maria Milena Priviero: una parola discreta, piana e quasi sommessa, molto vicina alla sfera colloquiale. Quella stessa parola poetica senza “rumore”, dalle “rime non crepuscolari / ma verdi, elementari”, a lungo cercata da Giorgio Caproni ad esempio, poeta la cui voce sovente riecheggia all’interno di questi versi.
Silvia Secco
E se
e se dell’amore dovessi dire
non lo direi con le parole
ad occhi chiusi forse lo direi
e le mani intrecciate
o forse non lo direi affatto
perché l’amore è una voce
che in silenzio il silenzio ascolta
Numeri primi
Nella vita avrei amato
le moltiplicazioni,
(magari un altro figlio intorno
ai quaranta’anni)
e invece hanno prevalso
le divisioni, le separazioni dai luoghi,
(quando non erano sottrazioni)
così ora sento più vicini i numeri
dispari, meglio se primi
(tanto i conti non tornano)
che un resto lasciano certo
una via ancora possibile
forse a un ricalcolo.
Trasloco
Tutto era stato caricato
sul camion del trasloco
che aspettava rombando sulla strada,
che una bimba facesse quel passo
di lasciare la sua infanzia
smarrita sugli scalini
della vecchia casa
in una scatola di cartone,
stretta nel cerchio convulso
della braccia, dove stava
coi nati, stranita anche la gatta
Signorina Poesia
è come una donna
che per le vie del centro passa
o forse è ancora una ragazza
che incede leggera, senza lasciare
traccia ma che sa andare oltre
intraprendente
sulla spalla la sua giacca
e s’apre di nuovo
il tuo sorriso inatteso
aggrappato a quel tuo
forte fragile stelo,
come l’ultima Nerina
del tuo giardino
in un filo di voce
sospeso : – Sei tu, sei tu,
quella che mi piace –
Come ramo lacerato dal vento
hai una ferita esposta
Semmai un giorno si saldasse
avresti una parte di te più dura.
Bisognerebbe tagliarlo lo sai,
perché ramifichi ancora
ma il taglio non è la cura
Ieri ho messo via il nostro
inverno in grandi scatole
di cartone nonostante il tempo
fuori fosse avverso.
L’ho posto tra maglioni, felpe
sciarpe e pantaloni
di fustagno, preoccupata
che stesse bene e al caldo.
Ma ho ancora tanto freddo
e trattengo per noi (di nuovo
bambini), guai un mal,
un plaid e dei vecchi golfini