Da “Residenze poetiche”: tre note di lettura sull’antologia Dal sottovuoto – Poesie assetate d’aria (Samuele Editore 2020, collana Scilla, prefazione e curatela di Matteo Bianchi)
Sguardi di-versi. La certezza del medico e il dubbio del poeta
di Matteo Galluzzo
È ancora possibile interrogare la parola poetica sulle questioni fondamentali del nostro tempo? E, se lo è, che tipo di risposte è lecito aspettarsi da questa interrogazione?
Il tempo presente segnato dall’emergenza sanitaria, ci ha improvvisamente ricordato di essere dei viventi posti in un ambiente naturale e, come tutti i viventi, sottoposti alle sue leggi. Nella frenesia conoscitiva scatenata dal contagio ci siamo subito affidati a quegli strumenti che ci sembravano più adatti a soddisfare l’esigenza di sapere: la statistica e la scienza medica.
Per mesi siamo rimasti incollati agli schermi in attesa della parola degli esperti, nella speranza o illusione che il conteggio dei vivi e dei morti potesse in qualche modo far luce nel buio che improvvisamente ci aveva inghiottiti. Il panico ha generato delle illusioni di oggettività, la prima delle quali ha riguardato le percentuali, il conteggio dei vivi e dei morti. Presto ci siamo però accorti che il dato è di per sé muto e solo attraverso un’interpretazione può significare qualcosa. Ma così ci ritroviamo daccapo precipitati nell’incertezza del mondo dei simboli, questa volta statistici, senza gli strumenti ermeneutici per poter arrivare a rispondere alla domanda fondamentale che martellava nelle nostre teste: «come sta andando?».
Abbiamo poi assistito a liti tra virologi, differenze di opinione, il teatrino scadente degli insulti reciproci a mezzo social network. Tutto questo ci ha ancora una volta messi davanti a un’evidenza per alcuni sconcertante: neanche la scienza è un sapere oggettivo. Lo sguardo che il medico ci offre è il suo sguardo; il “guardare come” del medico che offre solo uno dei tanti punti di osservazione possibili. Anche in questo caso ci siamo così ritrovati nel caos delle interpretazioni, mentre la nostra angoscia aumentava.
Ritorniamo così alla domanda iniziale. Perché affidarsi alla parola poetica?
Ha provato a rispondere a questa domanda la casa editrice Samuele Editore, chiedendo a quaranta poeti contemporanei di fotografare la situazione presente attraverso i versi. E la poesia ha risposto a questa chiamata con l’unica certezza (se così la possiamo chiamare) che essa può offrire: il rifiuto dell’oggettività dello sguardo.
Prendendo ad esempio alcuni testi dell’antologia vediamo che Luigia Sorrentino, ad esempio, dichiara che il punto di vista è quello di una persona che guarda da una finestra, che è al contempo limite e lente con cui osservare il mondo: «Dal vetro vede la strada / la lingua lucida / limacciosa / spalancata negli occhi». Il vedere, è qui dichiarato, è il “vedere come” di una persona che guarda da un punto di vista connotato sia in termini spaziali che di conoscenza: «la suola delle scarpe / non ha consumato / la sconosciuta / profondità del vedere».
E l’immagine del vetro la troviamo anche nella poesia Chiudersi in casa di Tiziano Scarpa, che non lascia presagire nulla di buono per i destini della nostra specie: «Confronto la finestra del computer / col cielo incarcerato dietro il vetro». Dalla messa in discussione dell’oggettività del punto di vista si passa poi alla messa in discussione dell’humanitas tout court: «La pandemia toglie dal mondo un velo: la specie umana brama il fallimento». Scarpa cerca infine di far proprio il punto di vista animale: «Una rondine vola a bruciapelo qui fuori. Il mondo è tuo grido contento / Passo il vetril per lucidarle il cielo». Vetro e cielo si fondono e si confondono, perché distinguerli sarebbe ricadere nella conoscenza, nell’umano, nell’oggettività che ci impone di sapere che un vetro non è il cielo.
Nella poesia di Stella N’Djoku invece il punto di vista personale dell’interrogazione sul mondo è subito dichiarato linguisticamente attraverso il verbo «osservo» della prima poesia e il riflessivo «mi chiedo» della seconda. Qui non viene esplicitata la finestra ma è quello il punto di osservazione da cui ce la immaginiamo mentre guarda l’esplodere della primavera intorno a lei.
Franco Arminio nelle due poesie qui raccolte ci invita a osservare la paura da due punti di vista diversi. La prima si conclude con una sentenza che pare chiudere il mondo e l’esperienza entro i confini angosciosi della paura: «la nostra città natale / è la paura». Nella seconda ci viene invece indicata una possibilità che la paura ci offre: «Avanti usciamo da questa infermeria televisiva, / prendiamoci il terrore e la letizia delle cose vere»; che è quella di essere comunque una verità dell’umano da contrapporre alle opinioni particolari spacciate per verità oggettive.
Dopo la lettura di questi testi ci troviamo in definitiva con più dubbi di prima ma, in definitiva, affidarsi alla poesia significa proprio imparare ad adottare un punto di vista particolare che non aspira a comunicare alcuna verità; significa affidarsi al dubbio di non avere soluzioni. E il dubbio è, credo, il punto da cui partire per trovare le risposte che stavamo cercando.
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