Il corpus di una madre lingua che seduce e divora, una madonna lingua che redime e inchioda. Ma anche una maestra lingua, che ammonisce per proteggere e attira con l’inganno. Sono queste le prime immagini intraviste tra i versi del nuovo libro dell’amica poetessa Giorgia La Placa.
Sin da subito il lettore, immergendosi in una scrittura tutta sensi ed ironia, sembra subire una calamitazione, la stessa che l’autrice prova per il linguaggio. Tra i sensi e l’ironia quest’ultima in particolar modo mi stupisce: la boutade solidale, casareccia si trasforma in un balzo o un una smorfia bonaria, che bambinescamente e saggiamente permette di raggirare il cruccio quotidiano, donando palliativi per il disgusto. Eppure il distacco derivato dal taglio ironico del testo, cede il passo a volte ad una fragilità velata.
Per chiarire il concetto riporto un’immagine exemplum dal libro: il «turista giapponese» che «non ha cura di niente / butta la birra sul reperto» (p.30); lo scavo archeologico a cui allude il componimento potrebbe allegoricamente rappresentare uno spazio intimo e profondo, violato dallo straniero tout court, che forse è il linguaggio o ogni altro. Procedendo tra le scansioni testuali infatti si avverte sempre un certo senso dell’oltraggio, che conduce in modo forzato il soggetto poetante alla ribellione: «Non posso seguirti nel grembo, / ma affondare la lama per / spremere meglio il senso» (p.31). Una madre ferita ed uccisa per esprimere il dramma celato dietro la poesia, il dramma di uno scontro a due.
La fragilità muta in ribellione, come la tragedia in lotta: «sine adversario nulla luctatio est»; la poetessa cita Cicerone per palesare lo sforzo nel rimanere lucidi tra una moltitudine avversa, contriti tra il sillabare e lo sbavare. È una poesia della collisione quella di Diktionarium, una poesia segnata da scelte formali incisive, che rendono il testo improntato ad una frammentarietà depistante, ad una scomposizione che finisce in feticcio: il «pezzetto di cielo», «le gatte, i portici e i fiori», «le gambe, i vortici, i nodi», «lo scollo a barca» (da Hiraeth, p. 21). Per l’appunto tale attaccamento al frammento coinciderebbe con una focalizzazione microscopica che riduce il campo, procedendo dall’immagine, alla parola, sino alla lettera spoglia: «La lettera R: la lettera “r” suona bene, / è all’inizio di principio, ma poco dopo(…)» (p.37).
Ivano Testa
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