Maria Milena Priviero – Da capo al fine
recensione di Emilio Di Stefano
Non sono un critico. I miei sono solo appunti di lettura. Ad uso quasi privato. Per me, insomma. E basta. Posso fare – e quasi faccio – un copia/incolla da ciò che ho scritto dopo aver letto le liriche di Maria Milena Priviero.
Al di là di eventuali debiti o suggestioni tematiche e stilistiche – è impossibile non averne! – ho avvertito diversi spunti onesti nel dire della Priviero: ad iniziare dalla sua voglia di raccontarsi in un io lirico che stringe a sé una scatola di cartone, tra piccoli di gatti (trasloco), al desiderio di mettere via l’inverno (ieri ho messo via il nostro inverno), ai contorni di certe dissolvenze che finiscono in ginocchia abbracciate, ed in altre liriche. Poi c’è, ovviamente, il suo capo e il suo fine.
Oneste le immagini e il sentire perché – in tali spazi di versi – ho colto l’acutezza fragile e intensa del suo guardare. A me, di quei suoi flash, restano le gambette attorte dalle braccia (forse a difesa) nel rumore di un camion in partenza per un altrove non necessariamente fisico, lo scodinzolio amico di un cigno o il salto sulla schiena di un gatto irriverente.
Forse questo o questa è poesia! Non lo so. Non sta a me dirlo. Ma amo i dettagli e chi ha la capacità di coglierli e trasmetterli. Che Maria Milena Priviero riesca a farlo, a coinvolgere un lettore attento ai versi e al suo percorso di scrittura, è evidente. Soprattutto quando dimentica gli antenati (parenti, cugini poetici più o meno nobili!) e si lascia guidare dalla sua umanità.
Perciò, quando nella sua quête la Priviero si abbandona e si lascia andare alla risacca di un vissuto senza remore – se non di sabbia –, riesco ad avvertire note poetiche di profonda sensibilità. La sua mi pare, insomma, una poesia in cammino. E da lettore – non da critico – mi fa piacere di averla trovata.
Non è poco. Per quel che vale il mio giudizio.
Emilio Di Stefano