da Culturificio
La silloge di Marco Amore, Farràgine (Samuele Editore, 2019), è un caso più unico che raro da sorprendere, oggi, nel reparto che abbraccia un mestiere, quello di custode di libri appartenenti a un genere eccessivamente trascurato: la poesia.
Nell’accurata prefazione, firmata da Giovanna Frene, si legge chiaramente che «il testo risale al 2011, quando l’autore aveva 20 anni». Nel titolo si specchia bene la forma della raccolta, come ha precisato Frene:
“Farràgine”, o arcaicamente “farràggine”, è un termine che designa un ammasso di erbe diverse, comunemente dato al bestiame, ma designa anche più comunemente il farro. Ci troviamo di fronte, letteralmente, a un ‘libromassa’.
Nel fiore degli anni, il poeta inaugura un viaggio infernale ricalcando il tipico sregolamento di tutti i sensi vissuto dai poètes maudits. Le bevande alcoliche (whisky, brandy, grappa, armagnac, vesou, cognac, rum, cachaça, thibarine, slivoviz, malibù) costellano il primo testo della raccolta, dove «il vino delle messe» invecchia, metaforicamente, rendendo ancor più «ebbro» il poeta che giace inerme nella sua coscienza, divenuta nient’altro che una «bucolica branda», un «gelido sepolcro» segnato da quella che – per dirla con un verso di Dino Campana – sarà «sempre una piaga rossa languente».
Vernalda Di Tanna
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