In canto a te – Lucianna Argentino


 
 
In canto a te
Lucianna Argentino
Prefazione di Gabriella Musetti
Pagine 96
Prezzo 12 euro
ISBN 978-88-94944-13-6
 
 
 


 
 
 

Questo libro potrebbe aprirsi con l’interrogativo che Gaspara Stampa pone nelle sue Rime, tanto è profondo e analizzato il parlar d’amore che qui si tratta. Come la poetessa veneziana del Cinquecento, che riconfigura sulla propria esperienza di donna-amante il codice petrarchista, innovandolo e profondamente mutandolo, Lucianna Argentino apre un Canzoniere amoroso che declina tutte le modalità della passione nella carne e nello spirito. Dice della tenerezza, del sentimento, del desiderio, dell’ardore, della compiuta pulsione, della nostalgia d’amore, della dolcezza, della forza vivida dei sensi, dello sgomento, della profonda compartecipazione dell’amata con l’amato e viceversa, della gioia, dell’abisso inconoscibile, della perdita di sé, della nuova conoscenza che il soggetto acquisisce da questa esperienza.
è un percorso di passione e di conoscenza nel senso più ampio del campo semantico, di ritorno a sé arricchita, modificata dal cambiamento intercorso. è un percorso che si richiama al cammino mistico, non a caso tra i diversi esergo troviamo Angela da Foligno, mistica e terziaria francescana del secolo XIII, che nel suo Memoriale, indica i trenta passi o mutamenti che l’anima delle compiere per raggiungere l’intima comunione con Dio.

L’apertura sull’Arte della gioia di Goliarda Sapienza illumina sul tempo che trascorre e ritorna, sui passaggi delle stagioni della vita, ma anche sul rinnovarsi in modo nuovo e inedito delle esperienze della giovinezza, quando si riaffacciano in età matura. Il confronto che qui si mette in gioco non è soltanto temporale o di vissuti trascorsi, ma diviene una possibilità inedita e straordinaria di rivivere tensioni passate e momenti difficili in una doppia misura, nel ricordo e nel presente, con una forma di raddoppiamento del soggetto che scrive e sente il qui e ora e ciò che è stato, esercita la memoria, mantenendo come una sorta di specchio temporale aperto davanti a sé in cui si riflette e può cogliere i passaggi che intervengono.

[…]

Questa narrazione autobiografica in versi con le voci autonome e alternate in un dialogo immaginario, mette a punto una situazione, rivela le impurità della esperienza concreta di vita, i grovigli dei dubbi e delle illusioni, le forme dei risarcimenti e delle penitenze, e sembra una necessaria compensazione o controcanto, più che una spiegazione, della parte prima del libro, incentrata su un cantico di gioia pura, un’estasi senza compromessi o remore, come un pensiero che arriva ai confini del sensibile.

 

dalla prefazione di Gabriella Musetti

 
 
 
 
Perdonami
per non aver compreso allora
quanto profondo fosse l’amore
questo che ha attraversato
primavere renitenti e inverni caparbi
e approda ora alla nostra estate piena
con lo stesso volto
gli occhi arrossati dal rimpianto
le mani giunte in preghiera
per la grazia del qui e ora
noi liberi dal per sempre
ché eterno sarà l’essere stati.
 
 
 
 
 
 
Abbiamo attraversato la notte in ginocchio
perché la misericordia divina
ci trovasse preparati per un nuovo impasto
e un respiro più prudente e giusto
ci fosse alitato nelle narici.
Officianti il sacramento
di quelli cancellati dalle mappe
ma ai quali è affidato il compito
di testimoniare la grazia
– quelli a cui molto sarà perdonato
perché molto hanno amato.
 
 
 
 
 
 
Io sono l’agnello
e lui la lama cui offro il collo
il coltello per il sacrificio
a un dio che dimora nel mio ventre.
 
 
 
 
 
 
da Il poema della luce o del teorema della ricorrenza
 
 
Dal treno la rivincita sul tempo
non la credeva e nemmeno sul rammarico
perché di rado se n’era visto uno sparito così,
semmai addolcito, eppure quello, adesso rinverdito,
la esortava: guardami gli anni mi hanno cambiato,
ma so che tu mi riconosci, che non mi hai dimenticato.
Ma lei – quella in carne ed ossa – era la stessa? E lui?
Di vita ne è passata, si dissero e se la raccontarono
a Milano, senza bagaglio, mano nella mano,
lungo i viali del Castello Sforzesco.
La ghiaia sotto la panchina riverberava assoli di ricordi,
scovava dubbi in fondo agli occhi e ombre dilatate
dalla luce gentile di quel pomeriggio di settembre
che, riluttante, si congedava dall’estate.
I due vagavano attoniti nel vuoto d’anni di cui erano gli estremi,
priva di guida la memoria andava a caso
e lei smarrita girava attorno a quella clausola
che poi, di tanto in tanto, le concedeva tregua.
Perché non mi parlasti? le chiese lui
col fiato spezzato dal rimpianto.
Non sapevo ascoltarmi, non conoscevo altro di me
che trasparenza. Ma ora tu salvami da questo gorgo,
lo supplicò lei da dentro un’ancora non arresa disputa.
Lui taceva, forse solo un sorriso, ma appena sotto pelle,
gli sussurrava che in lei c’era qualcosa che lo riguardava.
Misuravano non il peso del passato o una sua ipotetica innocenza
ma il già eluso futuro, corroso da quanto rinnegato
quando il tempo era alleato coi battiti del cuore
e il cuore non lo temeva, ne sentiva anzi la benevolenza
ora rinnovata nel fuoco di quella ricaduta.
Sconfinavano le ore, indocili e gelose,
nella recita dei loro reciproci almanacchi
accesa la questione se dal chiuso da cui era evaso, lui,
poco persuaso che fosse libertà, si potesse edificare un’intesa.
Credevo di non avere scelta, confessò lei l’autoinganno.
Il prezzo per la revisione della storia le lacrimava dentro
e stava come la luce quando cede in grani
il suo potere all’ombra che, pentita, eppure avanza.
E avanzavano loro attraverso il dialogo simmetrico
tra l’ape e il fiore in una ricomposta visione
lungo parole a lungo senza voce:
tuttavia sulla pagina riescono a cantare,
le parole intendeva lei, ma lui aveva compreso
e soffiava via il rimpianto col fiato della riconciliazione
così che quelle rilucessero di più limpide gestazioni.
I tigli e i platani e le robinie scortavano
il loro disorientato procedere l’uno nel mistero dell’altra
e mentre la verità cresceva lei pensava all’acqua dei Navigli
in posa per la foto accanto alla fontana.
Chinava la gioia a quella prova, ma intanto in petto
le raspava un senso di cane che scava l’osso nel giardino
e lui in quel dolore ancora non rimosso
riprendeva quota dal basso continuo degli occhi di lei
che pure voltava lo sguardo nel timore di alterare lo stato
di quanto, a mano a mano, in loro si faceva prezioso silenzio.
Anche lui guardava altrove adesso.
Era un’area di sosta, un punto di raccolta
contro il cielo di porfido l’abbraccio ancora perpendicolare
di luce deviata dalla diversa sostanza della loro attesa.
La notte tacque e laconico fu il mattino quando
si salutarono in fretta alla stazione
presagendo in corpo il lavorio di quell’incontro.
[…]