Assolutamente intrigante e coinvolgente il titolo della raccolta poetica di Beppe Cavatorta, Istantanee di un amor de lonh (Samuele editore, 2020, p. 110), con prefazione di Federica Santini.
Per chi ama la poesia provenzale e subisce la fascinazione di Jaufre Rudel (1125? – 1148) il libro è imperdibile. Sorge subito la domanda: che cosa ha in comune Cavatorta con la poesia romanza, da cui nasce tutto il fiume della poesia occidentale? Molto, certamente l’essenziale, sebbene a prima vista egli appaia molto diverso e, come afferma Federica Santini, il poeta sia antilirico. Ma non mi sentirei di accreditare del tutto questo giudizio, le formule sono sempre riduttive.
Vediamo. Rudel, uno dei più amati trovatori, nella sua canzone struggente racconta di un cavaliere che per amore di una donna mai veduta, una principessa siriana di cui si favoleggia, si imbarca per la crociata, una crociata d’amore e non di guerra; nel lungo viaggio si ammala e infine morirà in estasi tra le braccia della splendida donna ideale. Tema ripreso nei secoli da molti, uno per tutti Leopardi con la sua lirica Consalvo. Ma non dimentichiamo Pasolini provenzale, che dedica all’amor de lonh, l’amor lontano, le sue poesie giovanili scritte in friulano. Dunque il “lontano” diventa il topos dell’utopia, del “nessun luogo” e dell’irraggiungibile, se non a momenti, se non per lampi, se non per perderlo o per morirne. Ma nello stesso tempo il “lontano” è la gioia suprema.
Interessante confrontare la versione sul tema di Cavatorta, e le sue variazioni originali, con un saggio di massimo Cacciari apparso su MicroMega nel 1995, in cui Cacciari, accostandosi al Pasolini ragazzo, si chiede:
“Ha nostalgia dell’acuto piacere che dà la speranza pura, assolutamente «libera» da ogni concepibile possibilità di compimento? Nessun’altra gioia tanto gli piace come godere dell’«amor de lonh» (Jaufre Rudel: «car nuhls autres jois tan plai / cum jauzimens d’amor de lonh»)?”
Cacciari non traduce i due versi di Jaufre Rudel, che dicono:
“che non v’è gioia che più mi piace / come il godere dell’amore lontano.”
Cavatorta conserva questo piacere, sebbene la venatura della sofferenza in lui sia molto marcata; l’adorazione di “lei” resta immutata, colta nei particolari che diventano essenziali e individuanti, icastici, e perfino celestiali, angelici:
“Se il cherubino non fosse mai stanco / di stare a guardia alla tua luce chiara / alle tue stelle e il tuo sorriso stesse.”
“E i tuoi pensieri si disvelano / in un alfabeto di tacchi e unghie”
Ciò che muta è proprio “lei”, la fonte della gioia. Se per gli stilnovisti la donna è perfetta, compiuta immagine del paradiso, venuta “a miracol mostrare” (Dante), qui la donna, solo ipoteticamente ideale, deve farsi, costruirsi, trovare se stessa. E ancor prima che costituire un baluardo contro il vuoto per l’uomo, deve essere forza e argine in sé per sé. Resta comunque garante della vita, della durata contro l’effimero, lei invocata con una congiunzione, “se”
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Graziella Atzori