da imperfetta ellisse: qui
“Una poesia che dice di sentimenti senza mai scadere nel sentimentale”, esordisce Rossella Tempesta nella prefazione. Ed è vero, lo dico subito, per quanto “sentimenti”, “sentimentale” e via discorrendo siano tutte parole che rischiano di essere etichette, fuorviando il ben intenzionato lettore. Forse per questo incomincerei proprio dalla fine, dall’ultimo testo, che ci torna utile per circoscrivere questo libro di Gabriella Musetti:
l’io si fa da parte, si ritrae. modo indiretto di osservare,
di lato. la traiettoria sbieca mette a fuoco immagini non
ortogonali, lascia spazio a ciò che accade
indipendentemente da noi, non si sovrappone. osserva
i cambiamenti, prende parte – quando vale.
nell’attimo sospeso, a volte, la bellezza
In esergo, un frammento di Emily Dickinson, il 624, che appare – come uno specchio – in lingua originale all’inizio, e chiude il cerchio:
Degli attimi fuggenti è fatto il sempre –
non è un tempo diverso –
se non per l’infinità –
o l’ampiezza della casa –
E’ la precisa descrizione della curvatura ellittica della silloge, della sua parabola, e della parabola della vita a cui il libro si sovrappone. E’ quello che avviene. L’io si fa da parte – direi – invecchiando, molto semplicemente. Giunge progressivamente alla convinzione, o alla maturazione, che il punto di vista è quello laterale, defilato, da cui osservare con una buona dose di disillusione e di consapevolezza “ciò che accade indipendentemente da noi”, all’interno di un tempo “infinito” (che quindi non ci appartiene ma ci possiede) o nello spazio conchiuso della “casa”, intesa sotto molti e importanti significati di identità, di “noi”, di appartenenza a quella vita ivi vissuta (e non serve qui rammentare quanto valesse la parola “home” per la Dickinson). E’ in questo percorso che i “sentimenti” (e bisogna intendere allora questo termine in un senso molto ampio) progressivamente assumono consistenze, spessori, colori diversi, come qualcosa che nel tempo sprofonda dall’epidermide a una misteriosa e indefinita sede dell’anima. In altre parole, questo ultimo testo è la scaletta della silloge, il suo resumé e la sua epigrafe.
Scritto in più anni, come mi dice Gabriella, il libro ripercorre in effetti eventi che si sono succeduti nel corso del tempo, non solo come ricordi o registrazioni emozionali, ma anche come successive sublimazioni poetiche, una rilettura che arrotonda gli spigoli dove ce ne sono, affina le percezioni dell’avvenuto (perchè effettivamente i sentimenti sono questo, qualcosa di più persistente di una semplice emozione), svolge in sostanza una funzione di pietas e di assoluzione di sé e degli altri. Il sentimento, a differenza della passione, ha una sua giustificazione e quelle ragioni che la ragione non necessariamente conosce, richiamando Pascal. Ecco quindi, io credo, il perché di questo bel titolo: la cura del sentimento, il “tenerlo in mano”, non come attimo fuggente come dice la Dickinson, ma come risorsa, elemento vitale che necessita, anche artisticamente, di una messa a fuoco, per non dissiparlo. Intendendo sempre “sentimento”, ripeto, in senso non meramente affettivo, ma anche ad esempio nel senso in cui lo intendeva Ungaretti, come coscienza – in quel caso – del tempo (e del resto non c’è sentimento senza la sua inclusione nel flusso temporale, nella “storia” individuale).
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