La vita in dissolvenza su Transiti Poetici


 
 
da Transiti Poetici
 
 

Tutti conoscono la celebre frase Panta rei, con la quale Eraclito con grande soavità e saggeza, suggeriva a tutti la rassegnata ineluttabilità del fluire di ogni cosa e quindi l’inanità di qualsiasi provvedimento umano e materiale capace di modificare o persino di arrestare questo scorrere continuo e irrefrenabile del tempo e della natura, direi del cosmo intero.

Le cose, il mondo, la vita stessa dell’uomo, dunque, lo sappiamo tutti, hanno un inizio, si evolvono, si sviluppano, per poi frantumarsi, smaterializzarsi, terminando la loro esistenza. Si tratta di una consapevolezza generale e generalizzata, che ognuno porta dentro di sé anche non pensandoci, non preoccupandosene, lasciando teorizzare il tutto agli scienziati ma principalmente ai filosofi ed eventualmente ai teologi. Ma qui rischiamo di addentrarci in un campo molto delicato e suscettibile di infinite discussioni, da affrontare in altre sedi. Quello che voglio dire è che il poeta ha sempre cercato, in genere, con la sua sensibilità ed esperienza, di trattare in tanti modi questo argomento per certi veri scabroso e impervio. Mi vengono in mente, ad esempio, alcuni versi di Giovanni Raboni, che dicono “Dammi tempo, non svanire, il tempo di chiudere i tanti conti vergognosi in sospeso con loro prima di stendermi al tuo fianco”… C’è urgenza quindi di recuperare ogni cosa, ogni bene, ricordi e valori, prima della “dissolvenza”, prima del finire perduti e dimenticati nel gran polverone della storia.

È così pure, per certi aspetti, l’aspettativa di Lucianna Argentino in questa sua ultima opera letteraria, La vita in dissolvenza. Ma c’è una peculiarità, in questo denso poema sulla vita e sulla morte, che lo contraddistingue in modo deciso, secondo me, e si tratta del fatto che l’autrice racconta, dice, il confine, il punto di congiunzione tra la vita che va dissolvendosi e l’inizio di un’altra realtà, da qualche altra parte, in qualche altra situazione: “La sento, sai la sento la forza che ci plasma / plasmare te nel mio utero / fatto di nuovo nido, fatto culla d’acqua / e tu, grappolo di vita, mora succosa, / aggrappato alla mia carne…” È il canto di una madre che non rinuncia al parto pur essendo consapevole della propria fine imminente causata dal cancro. Sono versi pregni di pathos, quelli del poema iniziale, Madre, dedicato alla storia di Rita Fedrizzi, una storia vera che Lucianna Argentino ha stigmatizzato con grande immedesimazione e trasporto poetico.

Giuseppe Vetromile

 
 
Continua su Transiti Poetici