Mal di maggio
Antonio Lillo
Pagine 94
Prezzo 13 euro
ISBN 978-88-94944-55-6
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Prezzo 4 euro
Fare per mestiere e per scelta l’editore di libri di poesia e contemporaneamente scrivere poesia genera un cortocircuito che non ha soluzione: necessariamente, infatti, bisogna fare un passo indietro, accettare di essere colui che lavora per la visibilità degli altri, rinunciando a quella porzione di protagonismo che probabilmente alberga in chi si sente “autore”. Al tempo stesso però ci si nutre di poesia, la si frequenta, la si metabolizza, bisogna amarla, e quindi appare quasi naturale che emerga il bisogno di immaginarne di propria; bisogna anche portare con sé un grosso bagaglio di pazienza, perché spesso l’ego dei poeti è privo di argini.
“Amo il mio lavoro pure quando / il lavoro non ricambia”: sono i versi da cui si muove Antonio Lillo per introdurci nella sua splendida raccolta Mal di maggio, una silloge in cui l’autore pugliese (editore ma soprattutto autore, sì, teniamoci stretta non a caso questa definizione prima delle altre) riesce a definire una traiettoria personalissima nel campo della scrittura poetica, senza rinnegare nulla del proprio bagaglio culturale e contemporaneamente mostrandosi a viso aperto, come pochi o pochissimi hanno la volontà di fare.
E inizia il percorso nel modo apparentemente più pericoloso, perché la sezione di apertura, Capitolo delle domande e delle risposte, è poesia sulla poesia o meglio sulle contraddizioni, le incongruenze, le grandezze e più spesso le miserie della scrittura e degli scrittori. Sono testi diretti e impietosi, aspri, dissacranti, ma il gesto stesso del dissacrare serve a fare spazio a una domanda, anzi alla domanda fondamentale: la poesia, “perché la hai messa al mondo?”. Con onestà e rigore, Antonio Lillo interroga se stesso nel modo in cui immagino si avvicini al lavoro altrui, anzi con un’attitudine ancora più intransigente, con tutti i dubbi di chi vuole usare le parole ma prega che “si esprimano da sole”, sapendo che il gesto stesso dello scrivere dovrà fronteggiare il giudizio e la diffidenza dei lettori perché “la poesia è un’arma pensata / caricata e lasciata alla mercé di chi passa”.
Francesco Tomada
Sogno del lavoratore stanco
Amo il mio lavoro pure quando
il lavoro non ricambia.
Eppure – storia antica – ho sognato
di emigrare.
La donna che amavo mi ha prestato
le sue gambe. Tienile mi ha detto
a me non servono.
Usale per marciare controvento,
per tenerti saldo e non scappare
che il mio uomo non scappi mai
di fronte a niente.
Nemmeno di fronte al lavoro più duro
mi sono piegato. Ho messo radici
mi sono legato alla terra.
Poi la ragazza è morta e il sogno
si è fatto pesante.
Intervista a un poeta
E quando hai scritto la tua ultima poesia?
È stato ieri o stamattina? È più di un anno?
E come l’hai trovata? Sana e forte o gracilina?
Di quale colorito? Quale umore? Era piena
di entusiasmo o già piegata dalla vita?
Era calda e fumante o ancora acerba?
Aveva già un partito o zoppicava? Con le ali
reclamava un posto al sole o alla finestra?
E ha bussato per entrare? O si mortificava
perché non ti voleva ed era pronta a odiarti?
Aveva mani grandi o lunghe gambe?
Reclamava un abbraccio oppure un morso?
O già poneva le domande di ogni figlia
che ingrata e piena di rimpianti
chiede perché l’hai messa al mondo?
Nuovi piani per il giorno
Non è più ora di credere all’angelo
in quella parola intera che svuoti
di cemento questo appello. Seminiamo
per raccogliere un frutto, la sua polpa
e non il seme. Andiamo avanti a morsi
piccoli morsi giornalieri per dirsi
sani sazi vivi, creature come ogni altra. Grati del sole
ed allarmati come bestie da ogni suono.
Il rosso
Voglio parlare del colore di un’insegna.
Ma non mi sento più il cuore di spiegare.
E non mi basta il mestiere di poeta
a scaturire una scintilla. Tutto è spento.
O fulminato. Le vedi lì posate le parole
e preghi che si esprimano da sole.
La parola rosso. La parola insegna.
Che ricomincino a gridare sotto il cielo.
Ecco le ossa
Me lo porto vivovivo nelle ossa
a ben guardare da sempre
questo freddo puntuto e
dal suo ramo nudo già pronto
a infierire sugli occhi.
Strapparmi dalla faccia lo stupore
l’arroganza di essere in salute
e – senza meritarlo –
non sentirmi solo.
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