da Solo Libri
Se vogliamo rimeditare il “male di vivere” che Montale ha sviscerato con toni malinconici e incontrovertibili, il libro di liriche Mal di maggio di Antonio Lillo, pseudonimo di Vitantonio Lillo-tarì de Saavedra, riprende la tematica, già evidenziata nel titolo (Samuele Editore, 2022, pp. 94, con prefazione di Francesco Tomada). Anche maggio, mese di fioritura, fragranza ed esuberanza vitale, contiene un male che non scompare, decisamente crudele, come la natura può essere.
La poesia che pone l’accento sulla condizione delle api in maggio stracolme di polline, intossicate fino alla morte per mancanza d’acqua in grado di scioglierlo, diventa metafora del dolore del poeta, ricolmo di quanto è impossibile comunicare, egli stesso metafora della sofferenza diffusa, universale e inevitabile.
Il tono è quasi sempre tagliente, in apparenza impietoso, ironico e autoironico, tragico, amaro, mai rabbioso, nonostante i fendenti ben assestati contro la coglioneria umana e le parolacce sparse qui e là, condimento di un discorso lucido.
Testimonia la violenza in natura, quanto sia necessaria alla vita, il gatto che squarta il pettirosso, la volpe che vorrebbe cacciare il gatto finita sotto un’automobile:
“La volpe è stata invece schiacciata da un’auto, mentre rovistava fra le buste vicino a un cassonetto. È morta dopo ore di agonia.”
Ma ciò che più colpisce è la stupidità dell’uomo, la cattiveria gratuita di chi abbatte un albero, riparo e casa di animali, per un desiderio risibile. La stessa meschinità il poeta la ritrova nella comunità in generale. La menzogna e il conformismo imperano, quasi senza salvezza. La voce di un poeta che recitava le sue poesie in piazza è messa a tacere. Scompare “la social catena”, la solidarietà sognata da Leopardi ne La ginestra.
“Dove finisce il gusto e comincia il vuoto di chi legge?
Dentro quale cesso?”
Che cosa resta? Ho scritto “quasi senza salvezza”. Una via d’uscita dal pessimismo più fosco Lillo sa offrirla con la solidarietà con i “poveri”, soprattutto gli evangelici “poveri di spirito” ovvero di saccenteria, di cui si sente parte. A essi dedica una intera sezione del libro.
“La mia scrittura è povera / perché io stesso povero / mi vedo. Impoverito / e secco sono un ramo che spreme dal suo frutto / per dirsi ancora vivo.”
La poesia stessa è povera, parente di Eros che, secondo Platone, è figlio di Povertà. Tale “pochezza” innocente costituisce la ricchezza più grande, la dignità e il valore. È la povertà paradossale delle Beatitudini, uno dei discorsi più alti mai pronunciati da un Maestro. L’incomprensione del poeta diventa un marchio di nobiltà.
Graziella Atzori
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