Proverò, in questo mio intervento, a tracciare un percorso di lettura delle opere di Alessandro Canzian, dall’esordio Christabel (Edizioni del Leone, 2001, nota in quarta di copertina di Paolo Ruffilli) fino all’inedita Il Condominio S.I.M. Non potrò, per ragioni di economia, approfondire tutte le tematiche presenti nelle diverse raccolte, pertanto mi limiterò a cercare dei punti di contatto e un percorso coerente all’interno delle stesse.
Già dalla prima pubblicazione, Christabel, si inizia ad intravedere un’indagine operata sul quotidiano: una ricerca, nella propria esperienza, di un qualche significato che possa avere tensione universale. Si evidenziano, in particolar modo, le esperienze sentimentali e i rapporti umani, in una forma che predilige la descrizione discreta, la rappresentazione di dettagli, in particolare della persona amata. Ma il dettato ha in sé il sintomo di un’inquietudine esistenziale, che si rivela, pur timidamente in questi primi versi, in ogni occasione di assenza.
“Ferma davanti allo specchio, / solare e nebbiosa al mattino, / i capelli arruffati sul volto, / maestosa, elegante se pur nuda / d’una nera intimità / che non svela, sorridi. / E sorridi d’un pieno sorriso, / bianco, raro, raro sorriso”: momenti come questo, di presenza, riescono ad arginare, in qualche modo, quella sensazione di vuoto, che è come fosse dimenticata e messa da parte. Ma non sopita. Ed ecco che la donna amata diventa “amante lacerata, / sopore d’assenza”; ed ecco la consapevolezza che “siamo sempre, sempre soli”, “che la vita / è aver sete / di qualcosa / che non si può bere”, in un poesia dedicata al padre, che simboleggia la solitudine, inevitabile “presenza” di una mancanza che appare come passaggio prestabilito della vita di ogni uomo, e destinato a ripetersi.
Il rapporto con la donna amata diventa “inganno / che nel tutto già ci esprime”, fatto di ricordi perduti; e sua conseguenza è una “tristezza che vanifica il nulla … proiezione / di una proiezione / nuda e vuota, di se stessi”.
Eppure Canzian cerca disperatamente quel contatto umano con la donna amata, perdendosi in queste consapevolezze estreme del pensiero, quasi per realizzare un “richiamo” verso la persona che avverte lontana, nella propria solitudine: “Fermato alla luna, ho gridato / il “morire si deve” / come estrema speranza / di viverti ancora.” La vicinanza amorosa sembra quasi portare con sé qualche speranza di salvezza, di felicità, vissuta, però, sempre con un certo disinganno, quasi con la consapevolezza che tale aspettativa andrà delusa: “Non nega la mia tristezza / l’aforisma di sabbia / e spuma. E sogno. / Tu sei la mia tristezza.” Il passaggio richiama Sabbia e spuma di Kahlil Gibran, come riferimento dell’eternità del fenomeno transitorio, dell’immutabilità dell’impermanenza, della fragilità delle cose umane, destinate a dissolversi, in una dinamica che, essa stesa, non muta: “Per sempre camminerò su questi lidi, tra la sabbia e la spuma, l’alta marea cancellerà le mie orme, e il vento soffierà via la spuma. Ma il mare e la spiaggia dureranno. Per sempre.”
La raccolta si chiude, alla luce di queste ed altre occasioni di incontro e di solitudine, con un dubbio che ben racchiude quanto detto finora: “Ma cosa siamo noi / in questo vuoto attendere la luce?”
Ognuno attende da solo, e la presenza dell’altro non basta a riempire questo vuoto attendere; la luce non sembrerebbe essere la persona che, insieme a noi, attende, nella propria solitudine, vicina eppure irrimediabilmente separata.
Con La sera, la serra (Tip. Mazzoli, 2004, prefazione di Tita Paternostro), si approfondisce la dimensione introspettiva, le riflessioni sul senso della vita, la relazione tra un principio positivo (la presenza, l’amore, la tensione verso l’altro) ed uno negativo (l’assenza di connessioni, di significato, la contemplazione della mancanza nella dimensione del ricordo).
“Ti penso, ti penso sempre, ti penso / anche nel non-pensiero, / che pensarti è come già sopravviverti”, “Ma qualcosa resiste e quasi le chiedo / d’esistere, per legarmi più a te”, “E cerco, e cerco, e ti cerco / nell’antenna di un insetto … nella parola / che nell’eco ancora odora di te”, “… tutto si trasforma in niente, qui. … Tu non sai la vita come sia densa, opaca / ombra di te, senza te.” Il dialogo con la persona assente diventa, in ultima istanza, tensione di connessione umana. Una speranza confermata in versi come “ben sapendo / il tuo cielo essere il mio cielo”.
L’assenza, contemplata in quest’ottica, viene vissuta nel dolore dell’abbandono, e sempre in forma di dialogo diretto, in un insistere di particelle “tu”, “ti”, e di azioni direttamente rivolte in seconda persona.
Ma quel sintomo di inquietudine esistenziale è qui più presente, e viene ribadito: “magma / ch’è nulla nel nulla che siamo” (da notare l’omaggio al Luzi di Nel magma), “Perché è nel perdersi il fine d’ogni cosa”, come viene ribadita la possibilità di salvezza data dall’amore, o meglio dal suo ricordo, per quanto assurdo, finito e transitorio: “È l’assurdo motivo di vivere … nel portone, quasi di vita, che non s’apre”, “E sei alba che non smemora, / dolce quanto pesa il vivere.”, “In te ho amato il nulla delle cose.”
“Ma il nulla delle cose è un tutto / che il tempo schiuma”. Il trascorrere degli anni aumenta il peso delle cose perdute e del loro ricordo, cui il Canzian sembra non voler rinunciare, perché la contemplazione della loro assenza sembra dare un senso ad una vita dove “la condanna del vivere è il vivere”, dove “è assurdo il tempo”, ma insuperabile, nel suo scandire presente e passato. E il Nostro sembra quasi ammetterlo: “Dicono sia possibile, lo sai, amare / un’ombra, ombre noi stessi / dicono non sia maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / a la miseria”, omaggiando il Montale di Tuo fratello morì giovane…, da Xenia: “…Ma è possibile, / lo sai, amare un’ombra, ombre noi stessi”, con un’ulteriore eco oraziana del “pulvis et umbra sumus”.
Una transitorietà delle cose che, nel momento in cui diventano perdute, permette di sopravvivere alla mancanza, in ultima istanza, di senso e di connessioni, nel ricordo di una loro, pur provvisoria, intensità passeggera, che lascia una impronta che il Canzian mantiene in vita come un prezioso, anche se doloroso, ricordo.
Quindi: si passa dalla testimonianza del rapporto umano, incrinato dalla solitudine che tratteggia la separazione e la distanza, all’assenza e alla contemplazione della mancanza, in un dialogo con la persona perduta che permette di sopravvivere in un mondo, apparentemente, privo di significato, proprio per aver smarrito quelle connessioni.
In Canzoniere Inutile (Samuele Editore, 2010, prefazione di Elio Pecora), Canzian sembra confermare ed approfondire quanto detto finora, in un’ottica coerente: “La solitudine di vivere è un silenzio … un riverbero di capelli alla rinfusa / senza senso abbandonati sulle spalle”, “una stufa accesa riscalda / appena il vuoto che ci riempie”, “E sorrido. / Sorrido di quell’amaro sorriso / di chi ha un grande vuoto dentro”.
Passaggi come “Questa vita disserrata ha il senso / della cagnetta smagrita che a lato / della casa s’avvolge / di gelo ogni notte” ripropongono il tema della solitudine, della sopravvivenza ad una vita dolorosa e apparentemente senza senso, in una disperata ricerca di calore, di contatto, raffigurata proprio dall’immagine di un inverno inospitale e severo.
Ma inizia a profilarsi un ulteriore sviluppo, quello dell’esilio e dell’attesa: “La vita è principalmente attesa, / da questo esilio il Dio”. Le solitudini di ogni essere vivente, dell’autore, della stessa persona amata, riassunte nella cagnetta smagrita, diventano attesa, vissuta nella dimensione del proprio isolamento, come se ognuno fosse esiliato in sé stesso. E questo trova conferma anche nella dimensione prevalentemente lirica e introspettiva finora analizzata.
Insistono nella raccolta le immagini sull’apparente assenza di senso, “Una linea estesa che si spezza / nel lungometraggio d’un orizzonte / vano”, “perché la vita / è da sempre sofferenza”, “La vita è un tempo che ridonda / sempre pari nel suo vuoto”.
Quale il senso allora, se c’è? Quale il significato ultimo? Canzian propone possa essere “uno svanire quieto tra le cose / a sé più care, uno sfibrare il resto / disperso del pensiero – inutile, / inatteso, con nello sguardo un gesto / pieno d’amore – per non attendere / più nulla dopo il male.”. Nell’inevitabile e lento svanire, che ci si auspica sia sereno, mentre i pensieri irrequieti (e inutili) sfibrano e dissolvono, l’augurio è che resti nello sguardo il ricordo di un gesto d’amore, di quella positività che sola, creando connessioni umane e con le cose, sembrerebbe dare un senso all’attesa, che esilia ciascuno nella propria solitudine, fino alla fine.
Ma il dolore e il male hanno la loro importanza, “perché il bene / non sempre serve / a rendere l’uomo più felice”, “Ed il mondo non ha più senso.”
Resta presente l’ossessione della persona amata, perduta, “Non altri che tu, in quest’assenza. E la tenerezza d’averti in un’attesa / che pare ritornare.” che il Canzian rivive anche attraverso gli oggetti della memoria, le mille cose del mondo quotidiano: “la cucina, il letto, il divano sfatto / del soggiorno invano – quasi tutto / fosse un grumo da capire, un sogno.”
Fabio Famularo
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