LA COMPLESSITA’ DEL DOLORE
Intervista a Alberto Toni
a cura di Mauro Fabi
Conosco Alberto Toni da molti anni, dagli anni in cui tutti insieme qui a Roma frequentavamo Empiria nelle lunghe serate di discussioni, presentazioni in cui c’era tutta la poesia contemporanea accalcata in quei pochi metri quadrati creati dalla instancabile Marisa Di Iorio in Via Baccina, a Monti. Lui, meno di una manciata di anni più di me, è sempre stato un uomo mite, discreto, disponibilissimo con tutti nel dare consigli, ascoltare con la sua acutezza e intelligenza. Poi abbiamo anche iniziato a lavorare insieme, e Alberto è divenuto quasi da subito una delle firme più importanti del magazine di cultura Via Po. Alberto Toni è uno dei nostri maggiori poeti contemporanei. Il suo ultimo libro, “Il dolore” (Samuele Editore, 2016), mi ha toccato profondamente, per la modernità del linguaggio poetico, per la difficoltà di far coincidere quello che è un sentimento personale intimo lacerante con una dimensione umana che alla fine deve essere riconosciuta comune.
Alberto, il dolore è allora la parola comune, più dell’amore, che rende gli uomini tutti uguali?
Forse il dolore, più dell’amore, rende gli uomini più uguali, ma dolore e amore spesso sono contigui, molto vicini, se non assimilabili. Dolore non è perdita, mancanza di qualcosa, anche dell’amore? Ci addoloriamo per la mancanza, per la fine, per l’assenza. Quando Ungaretti pubblica “Il dolore” nel 1947, era da poco finita la guerra, il poeta ha perso figlio e fratello, c’è un dolore cosmico in quel libro, tutto è da rifare, da ricostruire. Il mio libro vuole essere proprio una rivisitazione del dolore nei nostri tempi, riprendere quella condizione, riproporla volutamente in chiave privata e generale. In questo senso la perdita, nel mio caso la scomparsa di mia madre, si inserisce in una riflessione più ampia sull’uomo contemporaneo. È in qualche modo la metafora della trota sannita della poesia di apertura, “Lungo il Sangro”: la trota rappresenta il viaggio, il lungo viaggio della vita. E poi il dolore in età matura è percepito in maniera diversa, perché ci avvicina al traguardo finale, scardina le certezze in modo più radicale. Quando dico che il dolore “si sposta” intendo proprio questo: ci attraversa per intero, ci fa sbandare, e la scrittura poetica ne prende atto.
Il dolore e la madre, la malattia, la perdita e il verso che deve abbracciare tutto questo, la precisione di questo rapporto nel tuo libro va di pari passo con la ricerca della parola esclusiva, insostituibile…
La precisione in poesia deve andare di pari passo con la comunicazione, dove per comunicazione non si intende la visione diretta, ma il rimando comunicativo (come in Piero della Francesca), la ricezione emotiva, un’immagine, ciò che la mente percepisce e deve dirlo nei versi, attraverso la precisione (sempre approssimata) della lingua. Più è certa la misura, più si riesce a comunicare, anche il non apparentemente visibile. Le immagini, per traslato, sempre per traslato anche quando sono dirette, ci fanno capire dove ci troviamo, in quale situazione ricettiva. E se c’è precisione il messaggio arriva. In fondo la poesia è sempre questo misurarsi con la parola giusta, per dirla fino in fondo, solo così può giustificare se stessa. È un dettato profondo che deve arrivare, e questo è possibile quando i versi hanno la giusta forza, perché la parola poetica, quando è tale, è sempre forte, forte, dico, nel suo insieme. Dove mettere le parole: se colloco un articolo a fine verso è perché deve sporgersi nel vuoto, deve significare.
“Il dolore si muove. A giorno pieno / se ne va il ritratto, il sembiante che / era. Sembra un segno di ritorno, ma / non è questo”. Se il dolore non sta fermo, allora vuol dire che ci insegue, che non lascia scampo: tu vedi una possibile pace in tutto ciò, ritieni che la poesia possa dare la pace che dal dolore affranca?
No, la poesia non ha questa capacità, testimonia, sì, ma non pacifica. Come ho detto, il dolore si muove perché non si disperde mai, ma ci attraversa costantemente, anche se continuiamo a vivere. Ma resta il solco, la fenditura, e la coscienza della perdita. La poesia dice di questo e ne fa altro. Diciamo che, secondo me, per un poeta la pacificazione è impossibile. Scrivere è il corpo a corpo, più c’è verità di vita e più la poesia incide: è il corpo vivo della lingua. In questo senso il rapporto tra vita e poesia è sempre mediato. A volte arrivano sorprese da territori lontani, ma è sempre una ferita della lingua, il dimenticato, il perduto e la necessità di ricostruirne un possibile senso, a volte neanche diretto.
Raccontaci il tuo rapporto con Sandro Penna…
Ho conosciuto Penna nell’ottobre del 1976, avevo ventidue anni. Sono stato a casa sua due volte, mia sorella aveva come compagna di banco Franca Lacchè, sua vicina di casa, da lì è nato tutto. Gli avevo fatto recapitare una decina di poesie, mi chiamò, andai a trovarlo nella sua casa in via della Mola dei Fiorentini, parlammo a lungo, era la prima volta che incontravo un poeta. Quella casa, una casa dove tutto era in disordine, un abbandono totale e assoluto, ma era l’abbandono della lietezza della libertà. Ricordo che poi arrivai a piedi al Pantheon in uno stato di estraneità dal mondo. Non avevo mai visto niente di simile. Tornai poi una seconda volta, intanto ci sentivamo al telefono. Diceva: “C’è il poeta?”. Tra le pile di libri vicino al letto c’era “Documento” della Rosselli, che poi conobbi tramite Elio Pecora. “Devi leggere la sua poesia”, mi suggerì. L’incontro con Penna mi ha insegnato che la poesia è un gesto estremo e totale, non puoi farne a meno. “Questa è vita”, come disse la Morante a proposito di una sua poesia. Mi sono poi laureato con una Tesi su di lui. Era scritto che la mia storia poetica doveva cominciare così, e se penso a Penna, ancora oggi credo che il discorso sulla precisione e la misura parta da quell’incontro.
E quello con la poesia contemporanea? Quali sono i poeti italiani che apprezzi e senti più affini?
Per rispondere a questa domanda mi limito alle influenze più dirette e alle vicinanze più strette, senza nulla togliere ad altri poeti che stimo e reputo importanti. Negli anni di formazione e di studio perlomeno tre sono stati i poeti direi decisivi: Sereni, Zanzotto e Pagliarani. “Gli strumenti umani”, “Dietro il paesaggio” e “Inventario privato”, libri che hanno fortemente contribuito a definire un clima, un certo modo di descrivere le cose, al confine fra tradizione e innovazione. Ma poi anche Luzi, con la sua capacità di interrogarsi sulla storia, Amelia Rosselli, Elio Pecora. Per le generazioni successive direi Benedetti e Mussapi. Affinità, in questo caso, come per Giovanna Sicari, Antonella Anedda, Valerio Magrelli e altri libri come “Tema dell’addio” di De Angelis e “Vite pulviscolari” di Cucchi, e ancora: Roberto Deidier, Marco Vitale, Giancarlo Pontiggia. Ma è difficile fare valutazioni precise, e anche all’interno di uno stesso autore ci sono passaggi che sento più vicini e altri meno. Si tratta però, sempre, di una poesia che si colloca su un confine di lingua, senza perdere di vista un rigore se vogliamo, anche esistenziale, ma con la coscienza di un’impossibilità assoluta del senso. Una poesia che assume su di sé molte linee d’ombra.
Poesia, poesia narrativa e narrativa: puoi spiegare al lettore cosa le avvicina e cosa le allontana?
La poesia narrativa è molto vicina alla mia produzione attuale, mi attrae la sua capacità descrittiva, la sua linearità. Non c’è contraddizione. Per quanto riguarda la narrativa vera e propria, racconto, romanzo, le cose stanno diversamente. Sono due procedimenti completamenti diversi, come struttura e fruizione. La narrativa procede in linea retta, prevede anche se oggi in modo più libero, una riconoscibilità dei fatti, la poesia vive al confine tra riconoscibilità e non detto. Anche quando il poeta parla in modo chiaro dietro c’è sempre molto altro.
Tu sei un insegnante: i giovani recepiscono oggi l’importanza della poesia? Come vedono un insegnante poeta?
Sicuramente la grande poesia arriva, mi è capitato con Foscolo, Leopardi e proprio pochi giorni fa con “Davanti San Guido” di Carducci. Poi c’è Omero, indiscutibile. Quando leggo Omero l’attenzione è massima. È necessario educare i giovani all’ascolto. In genere lascio che sia la poesia a parlare. A una prima lettura non spiego mai, dopo, forse chiarisco qualche punto oscuro. E in genere avvertono subito quando la poesia è in grado di emozionarli. L’insegnante poeta forse è una garanzia di autorevolezza, so che molti mi seguono sui Social, altri quando lo scoprono rimangono un po’ stupiti, questa cosa li incuriosisce.