La grande poesia colma le distanze geografiche e temporali, e certamente una bella occasione di riflessione in questo senso è la prossima pubblicazione, oggi in anteprima in occasione del Dante Day 2022, di Miglior acque – 33 poeti neozelandesi e italiani rispondono al Purgatorio di Dante, a cura di Marco Sonzogni e Matteo Bianchi (Samuele editore, 2022).
L’idea di intessere un dialogo con la poesia dantesca, proprio attraverso gli strumenti propri del linguaggio poetico, è un’eccezionale dimostrazione della grandezza dell’opera del Nostro: in primo luogo, esattamente nel momento in cui le tematiche classiche con impressionante e lucida plasticità riescono ad immergersi in questioni e problematiche attuali, nel linguaggio che ci è prossimo, attraverso il filtro di una nominazione extra italiana; e, allo stesso tempo, è una conferma dell’universalità (sia cronologica che geografica) degli argomenti trattati, del modus con cui sono stati affrontati, e infine – della poesia stessa.
I tre testi qui citati, a titolo di esempio, ne sono un’efficace attestazione; in quello di Michael Harlow (tradotto da Claudio Pasi), l’espiazione che avvolge la cantica del Purgatorio caratterizza l’esistere dell’uomo al di là dell’allegoria ultraterrena, fino ad assumere tratti esistenziali, che ci appartengono in senso stretto: “è il pensiero / della morte che, in fine, ci aiuta a vivere / tu dici che l’amore spazza via / davanti a sé ogni cosa”: solo in questo passaggio c’è una bruciante identità di tempo e spazio tra culture, epoche, vicende umane dei singoli e delle civiltà.
Oppure la riflessione più essenziale sulla relazione tra ragione e sentire (“il cuore ha ragioni / che la ragione non può conoscere… è questo il fulgore che scintilla”), il riconoscimento della poesia dantesca come occasione di riscoperta umana (“i tuoi cantici sono luce”), fino alla riappropriazione di un messaggio universale che parte dall’esperienza individuale (“tutti i miei pensieri parlano d’amore”).
Quello di Airini Beautrais (tradotto da Bianca Battilocchi), rielabora il peccato dell’ira mostrandone la velenosa distruttività, che, anche qui, diventa riflessione sul sé e sulla propria responsabilità di essere umano (“Se mi sono smarrita, in me è la causa. / Ogni pianta è nota per ciò che semina”), riavvicinando la metafora dantesca a una stringente logica dell’esserci: “Il mondo è cieco e noi veniamo dal mondo. / Dipendeva da noi, non dalle stelle”, non senza una divergenza di intenti, tutto sommato, se il tema del peccato capitale viene sviscerato al fine esclusivo di sciogliere “il nodo della rabbia”.
Nel testo finale, di Andrew Johnston, è il personaggio di Dante che “lancia un messaggio” dal passato all’umanità dei nostri giorni, ed è un messaggio di accusa (“Voi umani … avete costruito il mio inferno”, espresso con sferzante ironia, basti notare “il suo naso toscano, / erudito, aerodinamico”), nel riconoscere “questa aria avvelenata in cui stiamo cadendo”.
La riconciliazione con il passato e con il mondo non è così difficile da comprendere e raggiungere; nuovamente, è l’espiazione il medium che consente il superamento della colpa, e basta il silenzio accogliente in grado di comprendere il valore di “una ragazza e qualche albero, / un’aria dolce” che “accarezzava la fronte … verso il punto dove per prima cade l’ombra della montagna”: messaggio che accomuna la tradizione e la memoria al presente e al nostro esistere, e si estende dalla Pietra di Bismantova a quella dell’Aoraki.
Mario Famularo
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