Lo spazio di oggi su Poesia al microscopio di Laboratori Poesia lo voglio utilizzare in maniera un pochino diversa dal solito. Una piccola deviazione, o licenza poetica. Perché martedì scorso (ed è già chiaro che in una nota non si dovrebbe eccedere nel parlare in prima persona) ho condotto assieme a Roberto Cescon la Festa di Poesia di Pordenonelegge e sono rimasto molto colpito non da un poeta o da un testo specifico, ma da un involontario accostamento di due poesie di due autori molto diversi tra loro, che non si conoscevano. Francesco Deotto, classe 1982, e Cesare Lievi, classe 1952. Il primo vive tra l’Italia e la Svizzera e insegna Letterature Comparate. Il secondo è un noto registra teatrale, drammaturgo e poeta affermatosi ormai in tutta Europa. Condividono, questo va detto, l’amore per la traduzione.
I testi che mi hanno colpito parlano di morte ma non in relazione a un individuo, bensì a una collettività. Un bombardamento nel primo, un ospedale colpito, una disinfestazione il secondo. Senza essere voluta si è creata una non soluzione di continuità terribile che travalica i singoli testi per dire qualcosa in più, metaforicamente.
Deotto è tutto incentrato sulla realtà fisica dell’impatto, della deflagrazione, quasi scomposta nei suoi singoli fattori e analizzata in un linguaggio coniugato con la normalizzazione abominevole della guerra (arrivando a discutere, nel testo complessivo di cui si è presentata solo la prima parte, di autobombardamento e sottolineando che per un oggetto quale il «bombardamento d’un ospedale», non sembra essersi ancora imposta alcuna vera scienza, o arte, effettiva ed ufficiale) che passa attraverso termini tecnici (Lockheed F-16 Fighting Falco, Mk 82, CBU-87, a grappolo, AGM-65) e in un formalismo che mette necessità, urgenza, ineluttabilità. La guerra come situazione inevitabile, appunto necessaria.
Lievi invece osserva un atto di morte collettiva (la disinfestazione) passando dallo stupore per la “bellezza di quel volo” alla consapevolezza della morte in fieri, che diventa domanda sul “male”. Un testo pacato e assorto come in apnea, nell’epifania della visione quanto nella comprensione abissale dello sterminio. “Dov’è il luogo del male” comprende l’osservatore e il suo luogo, in un’empatica partecipazione che non prende posizione, ma rimane appunto atterrito nella domanda.
I due testi, nati da storie e in luoghi assolutamente distanti e diversi appaiono però parlare, seguirsi, inseguirsi nella medesima materia umana. Trattano della medesima tragedia? Probabilmente sì se intendiamo la tragedia dell’uomo una sola tragedia. Eppure in guerra abbiamo bisogno di vederci diversi per giustificare la violenza. L’altro non è come noi. L’altro va distrutto.
Una necessità di distruzione accettata, questo è indiscutibile. Come la disinfestazione di Lievi, che possiamo bene immaginare essere il bombardamento di Deotto. Stessa esigenza, stessa ineluttabilità. Ma se Deotto si ferma all’analisi cruda e spietata, Lievi interiorizza la morte e se ne domanda il male di fronte a una bellezza evidente.
Alessandro Canzian
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