Da L’Avvenire del 6 ottobre
Massimo Onofri recensisce
Nerotonia
di Rossella Pretto
Samuele Editore 2020, collana Scilla, prefazione di Flaminia Cruciani
In un libro di Gianfranco Zanoli pubblicato da Ponte alle Grazie nel 1989, Libri, librai e lettori, si legge che, nel 1919, arrivarono in libreria ben 5390 novità, dato che si mantenne abbastanza costante sino al 1956. Nel 1970 il dato, però, s’era triplicato. Fino ad arrivare, esattamente un secolo dopo, alla vertiginosa cifra di 75.758. Se aggiungiamo quelli autoprodotti – fermo restando che in Italia non esiste nessuno che non possa contare almeno un parente o un amico che non abbia stampato in vita sua un libro di poesie –, sarebbe difficile tenere il conto senza farlo esplodere. La domanda sicché s’impone: in questa situazione, qual è l’atteggiamento dei giovani nei confronti della poesia? Ne scrivono ancora? Ma soprattutto (ed è domanda cruciale): ne leggono ancora? Se stiamo al mondo dei social – quello più frequentato dalle nuove generazioni – non si direbbe che il tasso di narcisismo, altissimo già a partire dalle performances di massa degli anni 70 e rinfocolato dai festival letterari dei decenni successivi, si sia abbassato: anzi.
Direi di più: la pratica della poesia in rete – a prescindere della ressa futile e veloce dei non impegnativi “mi piace” del pollice alzato – sembra rimanere un fatto totalmente autistico, di mera autocelebrazione dello scrivente, assai spesso sprovveduto di letture anche minime. Sui social insomma, soprattutto quelli più frequentati dai giovani, come nella pletorica e affannata pubblicazione a stampa, la poesia sembra annegare in una notte in cui tutte le vacche sono nere. Epperò, come sempre, bisogna stare attenti: e non dimenticare che, in letteratura, la democrazia non è il migliore dei sistemi possibili. Che il futuro nell’arte è dei solitari e dei perseveranti nella solitudine.
Capita, infatti, che ti passino sotto gli occhi post tutt’altro che banali: «Non so se fu realtà o se fu visione/quello che vidi in una sera estiva/costeggiando la riva del Mignone://l’acqua brillava come cosa viva./In cielo sparse nubi di cotone./Intravisto tra gli alberi di schiena,//si specchiava un ragazzo sulla riva/del fiume; nudo intero e senza pena./Lasciava il tempo quello che lasciava».
Questi versi li ha pubblicati su Facebook Gabrielle Galloni, un uomo di soli 25 anni (molto seguito e da taluni persino idolatrato, con già all’attivo 4 raccolte di poesie e una di racconti), appena due giorni prima di mettere fine tragicamente ai suoi giorni il 7 settembre scorso. Se ne è parlato anche su quotidiani molto letti, ma io ho appreso dell’esistenza di questo poeta struggente in rete, su “Alma Poesia”, rivista di un’altra giovane talentuosa, la trentunenne Alessandra Corbetta, a sua volta poetessa e lettrice devotissima di Umberto Fiori – ma cresciuta sugli spartiti di Saba, Sereni e Bertolucci –, che l’ha fondata e la dirige, nella convinzione (quella di chi, per fortuna, prende il mondo molto sul serio) che la poesia sia «la prova della vita». Corbetta ha al suo attivo due raccolte: Essere gli altri (Lieto Colle, 2017) e Corpo della gioventù (Puntoacapo Editrice, 2019). Ecco – tra le sue poesie recenti – l’ultima strofa di “Siena”, che le ho sentito recitare in uno dei suoi video, più spesso generosamente dedicati ai versi degli altri, esercitando un’autentica vocazione critica: «Il tempo dei luoghi/è più lungo del nostro/– forse già allora sapevi/che io non sarei più tornato con te –/perché la mia mano l’ho data/a chi come me non crede/che un luogo ci tenga/per sempre». Tutto questo pensavo, quando ho letto, appena stampato da Samuele Editore, Nerotonia, il notevole poemetto di Rossella Pretto, nata a Vicenza nel 1978, ma anche traduttrice, critico (non solo su “Alias”) e attrice, che dal teatro ha saputo cavare linfa per versi di sicura disposizione drammaturgica. Pretto è poeta culto e di secondo grado, orditrice di metapoesia, ma con la singolarie caratteristica di costituire le strofe come scene, che valgano, nel contempo, come proposta in costume e carcere mentale d’invenzione: «siedo su troni di vuoto e fischia il vento/qui dove sono/sola come un masso». E più avanti: «sono sazio d’orrori, hai detto/con bugie cucite di silenzi/e il passo fasullo dell’amore/hai diretto tra le secche dell’inverno». La sua disposizione metapoetica, però, discende da un’ossessione che l’accompagna da sempre, o almeno dai tempi della laurea al DAMS di Roma, quando si confrontava con la traduzione del Macbeth e con la sua messa in scena. Un’ossessione che ha messo finalmente capo, in queste pagine, a un serrato colloquio col personaggio, insieme patito e amato, di Lady Macbeth, in una specie di resa dei conti che si porta dietro tante implicazioni. Che cos’è, in effetti,
Nerotonia? Una proposta di autobiografia sotto mentite spoglie. Una riflessione sul rapporto tra la donna e il potere. Un capitoletto di antropologia nera dell’amore.
Un atto d’amore per il teatro. E infine un’ipotesi di metafisica: «il verbo fu,/prima della comparsa dell’uomo,/le streghe furono/e predissero questo: ritrovarsi»
Massimo Onofri