La poesia contemporanea svela e rivela la capacità di trattare i più alti temi filosofici con un linguaggio fervido e puntuale che non disperde la sua intensità nella tentazione al cerebralismo manieristico, risultando capace di essere limpido nell’immagine e suggestivo nel senso. Abbiamo dialogato con Luigia Sorrentino, poeta, giornalista e curatrice del blog Poesia, il primo blog della Rai dedicato alla scrittura in versi. Abbiamo scelto di prendere in esame tre delle sue principali opere: “Inizio e Fine”, pubblicata da Stampa2009 nel 2016, con prefazione di Maurizio Cucchi; “Olimpia”, pubblicata da Interlinea Edizioni (stampato nel 2013 e ristampato nel 2019), con prefazione di Milo De Angelis e postfazione di Mario Benedetti; “Piazzale senza nome” pubblicata da Pordenonelegge – Samuele Editore nel 2021.
Ci siamo immersi negli scenari onirici dei versi di Sorrentino, in cui il mitologema si ripropone perennemente innovato e sempre intatto, per riscoprire come la poesia sancisca la consapevolezza dell’inizio e la competenza sull’epilogo dell’esistenza, e possa coinvolgere il lettore nel vortice ricorsivo di ascesa e discesa, di principio e di termine dell’emivita biologico-spirituale dell’umanità.
Il suo incipit mi invita a chiedermi se davvero la mia poesia mette in pagina scenari onirici, ovvero, se ripropongo i miti del quotidiano analizzati da Roland Barthes in Mythologies. Il paragone m’intriga… Di certo la lingua di Olimpia filtra l’attualità, il contemporaneo, in figure archetipiche, mitiche, numinose che cedono il passo a quella che potrei definire “una lirica del feminino” nel suo eternarsi immutabile. Questo atto secondo me è deflagrante nella lingua, perché l’oggetto verbale non è solo estraneo a ogni ideologia e intellettualismo, ma apre scenari onirici in cui la contemporaneità è latente. Ad esempio, in Olimpia, nella sezione che ha per titolo “Iperione, la caduta”, incontriamo la figura del titano che ingaggia la lotta per la supremazia contro gli dèi dell’Olimpo, e il suo tentativo è destinato a fallire. L’essenza di Iperione potrebbe trovarsi in ognuno di noi, perché la simbologia del titano è quella del perdente, di colui che perde nella lotta. Nel poema la figura di Iperione si estende, sconfina, va oltre, e questo è il disturbo più diffuso nella contemporaneità. Potremmo dire, quindi, che Iperione e il suo desiderio di potenza è l’archetipo di un’esistenza debordante che è senza limite. A questo desiderio di potenza si contrappone la figura di una donna androgina, Olimpia, appunto. Una donna, certo, ma anche una città si contrappone a Iperione con la forza mitica della luce che si espande sopra di lui, e lo costringe a restare nel suo confine di non luce.
Inizio e fine, invece, abbandona lo scenario onirico e la lingua di Olimpia e anticipa il discorso di Piazzale senza nome, un libro che entra nella vita e nella morte degli altri, in un altro da sé. In Inizio e fine tutto ruota attorno al nome di questo “altro” nel riflesso brunito, bruciato, della fine.
In questo lavoro la mia riflessione poetica si è concentrata sul processo di cancellazione dell’individualità, dell’identità della persona. Mi sono ritrovata ad affermare quella verità che Michel Foucault indica con il termine parresia: avere il coraggio di dire la verità (sulla morte) e sulla vita dopo (la morte), una verità inaccettabile, per certi versi oscura, una verità impossibile da definire, una verità percepita, del tutto estranea alla razionalità.
Con Piazzale senza nome la lingua della poesia ingaggia una lotta durissima con la parola per affermare la verità della violenza. È una poesia che vuole che tutti riconoscano questa verità.
Ho scritto questi testi in poco tempo, fra il 2017 e il 2018. Mio padre moriva, e mentre accadeva questo fatto si è sovrapposta nella mia scrittura, un’altra perdita: un’esperienza individuale (e collettiva) vissuta nell’età dell’adolescenza.
Il morire del vecchio uomo e il morire dei giovani ha trasformato l’opera in un morire nel morire.
Piazzale senza nome è il luogo archetipico in cui queste vite si sfiorano, molti nemmeno si conoscono, ma sono stati lì, in tempi diversi, sono passati in quell’incrocio fra due strade: una delle vie conduce al porto della città, la strada opposta raggiunge una via e un quartiere che negli anni Ottanta era un luogo in cui ci si poteva perdere, si poteva morire.
A differenza di Olimpia e di Inizio e Fine la lingua di Piazzale senza nome è fredda, quasi anaffettiva, perché è contaminata dalla violenza e dalla dipendenza, fisica, affettiva, psicologica, in cui sono calati tutti i personaggi.
È un’opera che rivela la luce temporalesca del luogo, del piazzale, in cui la violenza ha camminato sottotraccia, nascosta nel tempo e poi si è materializzata nella scrittura del libro.
Ecco perché tutte le figure che entrano nelle sezioni del libro secondo me infestano il luogo della poesia, lo illividiscono, rendono l’esperienza della poesia irrespirabile, asfittica. Ma tutto è reale, perché si avverte nitidamente che qualcosa accade, qualcosa è accaduto, e si impone brutalmente nella sua verità.
Piazzale senza nome è quindi l’archetipo di un’umanità violenta (titanica) trasgressiva, che si nasconde nel degrado della propria individualità. I giovani sono scossi da una vertigine, da una spinta autodistruttiva che aspira alla divinizzazione della violenza e dell’autolesionismo. È questo il tema che pervade l’opera: la frattura tra l’uomo e la sua vera natura. Il desiderio è attraversato dall’illusione di non conoscere l’esperienza negativa della mancanza. Un archetipo che dichiara nella morte prematura dei giovani la fine dell’Istituzione, il fallimento dello Stato.
un’intervista di Gisella Blanco
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