Piazzale senza nome (La gialla oro, Pordenonelegge, Samuele editore, 2021) contiene i luoghi della disperazione, della violenza. Dolore incarnato in corpi abbandonati, amori infelici, soprusi, delitti. È forse questa la via maestra in cui tutte le strade secondarie e nascoste confluiscono per raccontare il margine in ogni sua forma. In Luigia Sorrentino ho sempre sentito l’eco della tragedia greca, ancor più evidente in Olimpia (Interlinea), e della poesia di Saffo. Amo nella sua lingua la capacità di essere nel presente e trascenderlo. Se racconta un luogo di defunti, di morti violentemente, li descrive nel cono di luci e ombre in cui torna anche la dolcezza del ricordo, la memoria di chi non essendoci più sarà sempre nell’aria, nella densità dell’intimo. Affiora l’elemento della musica, come una danza. Musica dodecafonica, discontinua, apre e chiude delle stazioni. Una metrica mista ma precisa, settenari, novenari, endecasillabi: la tradizione si rinnova nella ripetizione sempre diversa, nella risonanza della parola. Questa dispensa di civiltà incarna lo spleen baudelaireiano nella sua contrapposizione all’ideale. Un’ebrezza, una forma di dipendenza guida questi personaggi. Il panorama non è attuale, la realtà qui ripercorsa, con l’eleganza e la crudezza del sogno, è legata agli anni di piombo. Si percepisce uno scollamenti tra i ragazzi e gli adulti, una dimensione plumbea, falsata. La dipendenza riguarda tutti i protagonisti del libro, l’unico che sembra non esserne travolto è il giardiniere, che ha cura per le piante. La passione, la teatralità richiamano Giovanni Testori: una via Crucis. Nel lirismo di Luigia Sorrentino troviamo il viaggio, l’ascolto delle voci fuori dai bordi, una lingua raffinata, scavata fino all’essenziale. Un dionisiaco rituale, nella duplicità della parola: ritorna l’assonanza neve-vene. La capra non è la testa del diavolo, ma dell’uomo che perde sé stesso, un Dioniso caprino. Il mito è un incontro o uno scontro? Tra le ispirazioni, Rilke, Cvetaeva, Yourcenar.
Ilaria Palomba
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