Riflessi in un prisma su Laboratori Poesia



 
 
 
 
da Laboratori Poesia

 
 
Intricate le città,
difficile guardare tra la folla;
fitti i grattacieli, gli alberi e le gibbosità intorno.
Sugli occhi del cuore pendono ramaglie
eppure nel groviglio
un varco si apre e s’illumina.
Penetrante luce di carne,
le budella del mondo non le scateni
ma dammi le mani
per attraversarle insieme.
 
 
 
 
 
 
Aspetto che il sole si abbassi,
che il silenzio smorzi
lumi e lingue alle finestre.
Aspetto che le foglie si abbandonino
al destino scritto nelle vene,
che il vento si accoccoli
tra i fianchi delle montagne raccontando
le leggende e le sciagure delle valli.
Aspetto che la nebbia cali
sulle cime delle conifere che cantano alleluia.
Aspetto aspetto aspetto
che le palpebre si abbassino,
che nel buio del corpo
mi veda dentro
dove magari non troverò niente
o uno stoppino spento.
 
 
 
 
 
 
Nel quaderno rosso cercavo
una mia poesia da incorniciare,
non la trovavo.
Mia moglie stendeva
tutti i suoi vestiti sul lettone
per scegliersi il più bello,
non lo trovava.
Le dissi: “Teniamoci l’abito che abbiamo,
saremo noi stessi,
quando lo toglieremo
l’amore sarà più sincero”.
 
 
da Riflessi in un prisma, Filippo Passeo (Samuele Editore, 2021)
 
 
 
 

Nella poesia di Filippo Passeo, specialmente in quest’ultima produzione congedata da pochi mesi per la Samuele Editore, il colorismo della natura frammisto alla semplice, ma diretta percezione del sé sussumono una concezione dello spazio tempo che esula da un banale quotidianità. Nei versi calibrati, in cui emergono l’esperienza personale dell’osservare, il vissuto di un’identità, lo studio del fenomeno che transita davanti ai nostri occhi siamo come indotti a cercare di decifrare il non detto, il non immediatamente visibile. Così, ad esempio, la città che frastagliata per l’immensità di edifici impedisce di scorgere l’oltre viene accostata ad un cuore appesantito e involgarito in cui però è possibile impegnare quel “varco” che la luce illumina di senso e di significato, tra le “ramaglie” o “la folla”. L’elemento che funge da minimo comune denominatore è la presenza dell’altro: insieme è possibile attraversare le budella del mondo, insieme è pensabile altresì vivere l’esperienza della svestizione rimanendo nudi, ma non di senso. L’abito più bello è costituito dall’anima che possediamo, inutile ricercare la perfezione che non esiste e che rappresenta in fondo solo vanità di vanità: Passeo ci invita a scoprire con genuinità, in noi stessi, il ruolo prezioso della sincerità, della gioia pura che rifugge e aborre sovrastrutture mentali, inutili e roboanti complessità esistenziali. Solo in questo modo si riscopre un amore attento a sé e a gli altri, da condividere, da esperire intensamente. Il verso si libera di inutili orpelli, è privo del barocchismo di facciata che connota certa scrittura poetica del nostro tempo, e si fa aria pura, gemma che stilla immagine cristallina, ma allo stesso tempo richiede uno sforzo di comprensione che porti a rattenere ciò che appare in controluce. L’anafora che è parte essenziale della seconda poesia apre al significato precipuo dell’intera composizione: il valore dell’attesa è in qualche misura connaturato a quello della speranza poiché non è conoscibile ciò che è dentro di noi e nel buio del corpo (forse “niente o uno stoppino spento”), eppure sono necessarie la ricerca, la conoscenza, la visione piena. Il trascolorare delle stagioni verso l’incipiente autunno porta ad ascoltare il refrain proposto incessantemente dalla natura che sa stupire ed emozionare, entro un destino “che è scritto nelle vene” delle foglie, mentre dalle alte montagne l’eco smorzato del tempo trasporta i travagli delle popolazioni e il silenzio cala come un manto sul brulichìo insistente nelle case. E ancora una volta nell’introspezione di sé messa in atto con gli occhi del cuore si troverà la risposta all’esistenza di ciascuno.

Federico Migliorati

 
 
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