Riflessi in un prisma di Filippo Passeo
Samuele editore, 2021 – Ogni poeta si pone sempre in una condizione contemplativa, lasciandosi coinvolgere dal mondo.
Gottfried Wilhelm von Leibnitz, filosofo, nella sua Monadologia afferma che l’essere spirituale di ciascuno è una unità indivisibile, monade luminosa come uno specchio, capace di riflettere il mondo nelle sua sostanza. Vivere dunque sarebbe un continuo processo riflettente. Il titolo dell’ultima opera poetica di Filippo Passeo Riflessi in un prisma(Samuele editore, 2021, pp. 96) con prefazione di Pierangela Rossi, richiama la medesima concezione. Ogni poeta si pone sempre in una condizione contemplativa, lasciandosi coinvolgere dal mondo; tanto accade a Passeo che sente, comprende e si specchia con sensibilità intensa nel reale, visibile e invisibile, in tutto (compresa la pandemia):
“Anima anima anima, / sembra toccarla, averla tra le braccia, / ma si dilata, / più che un oceano e / il paesaggio della vita vi cade dentro. / Ciò che ha o non ha un nome, / ciò che conosce o non conosce, / ciò che è visibile o invisibile, / il bello, il brutto, il vero e il falso, / vento che s’insinua tra le sue vele. / È la totalità che ha dentro / ed è contenta di possedere tutta l’esistenza / che per lei è la bellezza, / e / se l’immenso o il niente non parlano / ne sente le parole, / sente sente sente.”
Il dolore maggiore consiste nel non essere altrettanto visti e compresi. La mancanza di empatia accentua la solitudine, altro tema portante della silloge, espresso paradossalmente… dall’anonimato della carta d’identità:
“Io che sono non mi conosco / e gli altri sanno solo quello che non sono, / ecco la mia carta d’identità”.
E quanto vede l’anima di sé? Il poeta esprime il desiderio e il mistero della conoscenza, che non può prescindere dall’amore, la cui natura essenziale è unione, carnale e spirituale:
“Non farmi cadere nel disamore, / piegati la fronte, piegati piegati / che io possa su di te distendermi / senza l’artificio del dolore.”
L’io chiede all’altro conto di sé, sia esso la donna o anche un fruttivendolo metaforico, divenuto un tu universale con funzioni salvifiche, a cui domandare la parola, intesa quale essenza, non semplice nome. Passeo usa la poesia come sacramento, la abbina con intuizione al pasto sacro:
“Vado al mercato in cerca di nomi, / di frutti per sfamare / il pallore di un foglio. / Me le dia acerbe le parole / e senza peluria di credi. / “Cosa?” / Un chilo di pesche e di kiwi. / Me ne dia altre succulente / col sapore della natura e della vita. / “Cosa?” / Un chilo di fragole e albicocche.”
Graziella Atzori
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