Schianti a sconfine
Mara Donat
Samuele Editore 2016, collana Scilla
prefazione di Michele Obit
pag. 48
Isbn. 978-88-96526-80-4
C’è stato un tempo in cui le riviste letterarie, o più in generale culturali, avevano un loro senso. Forse ce l’hanno anche adesso, ma certo tutto quanto è cartaceo pare ormai in procinto di essere fagocitato dalla potenza del web. Probabilmente lo è già. Figuriamoci una rivista letteraria. Insomma, quello era un tempo in cui ci si poteva ritrovare di sera tra amici e discutere di cosa mettere su una pagina, se un saggio, una poesia, una traduzione, un racconto, un’immagine… Dalle parti di Udine si faceva anche questo, attorno ad una rivista che si chiamava, alla maniera di Baudelaire, Corrispondenze, ed è in quel contesto che ho conosciuto i primi passi poetici di Mara Donat. Erano i primi passi un po’ per tutti, poi qualcuno avrebbe proseguito lo stesso cammino, altri cercato (e forse trovato) altre strade.
Ritrovo oggi Mara con una raccolta che mi sorprende per la potenza della parola. Lo so, gli anni sono soliti non passare invano, e la poesia deve trovare nel tempo altre sue forme, altri lidi, altri abbracci. Altrimenti non è nemmeno poesia. Il percorso di Mara mi pare abbia solcato, come lei, le onde inquiete della vita. Separate da un Intermezzo del mito, la prima e ultima parte di questa raccolta ognuna a modo loro raccontano uno scompenso. Personale, anche. Lo dice l’autrice stessa raccontando di “ricchissima esperienza di migrazione in Messico”.
Michele Obit
Smottamento
Dimmi, cos’è il corpo?
Laggiù un grido
vorrebbe farsi di gelo.
Gli scogli stanno lì
a prendersi il mare.
Si schiantano così
le forme, come l’onda
cui sfugge ogni nave.
Io sto nell’errare e
mi si sperde questo corpo
in frantumi di azzurro.
Guardo il ghiaccio.
Ogni cosa nel suo stare adesso.
La terra è instabile,
ogni corpo uno smotta-
mento. Si apre una voragine
che il ventre non ne può,
nemmeno il piede.
Vorrei che la mia parola
aderisse al mondo, corporale.
Crollerà ancora,
la voce mia di pane?
Smarrimenti
I
Non so che dire
del mio corpo, dell’esilio.
Gli uccelli migratori
bisogna amarli così,
come essi sono.
Niente può fermarli.
II
I confini usurpano il volo
e il corpo cede
a simulacri delle definizioni.
Ma l’uccello esule e solitario
è un corpo che non appartiene,
che non da tregua al viaggio.
III
Si sperde così a volte il mio corpo,
si frantuma in terre spietate
e non sa più come respirare,
come spaventarsi, come
in quale lingua forsennata
gridare, e solo gridare.