Se la terra muore
Gianni Giolo
Pagine 76
Prezzo 13 euro
ISBN 979-12-81825-17-8
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Non si dà prosa in questi versi, ma musica che compie comunque l’attrito reale con una storia, familiare quanto si voglia ma comunque una storia di cura, segni e amore. Nella poesia di Giolo c’è la capacità di trasformare gli oggetti in cose. L’autore riesce a trasportare, con il rito del verso obbligato del sonetto, un “fenomeno” da bene apparente a vero bene, cioè partecipa al lettore l’emotività che rende un mero oggetto, un semplice fenomeno concreto, in una cosa che porta in sé una storia, una cura, un segno.
Oppure si riscontra nella sua poesia un varco decadente, in una declinazione pure impressionistica, come la poesia che parla di cosa accade in casa e nel mondo (urbi et orbi) a sera: “Ogni sera d’inverno alle diciotto/si chiudono le finestre della mia/povera casa e nel mio salotto/si accendono le luci e nella scia/dell’universo splendono le stelle:/la terra appare un gran giardino,/e il silenzio si diffonde nelle/dimore che imbruniscono vicino/al tratto rugginoso della strada./Sovrastano le nubi minacciose,/e così se ne va una giornata/fra le altre nella insidiosa rada/della vita. Se ne vanno brumose/le ore sulla terra sconfinata”. Questo testo è un po’ come partorire una malinconia retrò, come il ritorno a casa delle “sere torinesi” di Guido Gozzano, un poeta ingiustamente messo da parte e bullizzato da certi “poeti laureati” del novecento.
Alessandro Agostinelli
II
La vecchietta che in chiesa distribuisce
la comunione passa con la testa
bassa e gli occhi umili lambisce
la terra come in volo e alla festa
s’accosta all’altare con devozione,
raccolta nell’anima immacolata,
passa in silenzio e molce la tensione
dei tanti anni, esempio luminoso
di una vita intensa dedicata
al culto e al suo arcano mistero.
Gente umile e modesta nata
in un paese dove tutto tace,
che s’affolla alla domenica col pensiero
rivolto a dio e alla pace.
XXI
A volte ho cercato di liberarmi
dalla dura tirannia della rima,
ma per me, non so, è come staccarmi
dal cordone ombelicale della lima
cara a Orazio, è come sottrarmi
ai vincoli segreti di natura,
è come un violento dissociarmi
dal cimiero e dall’armatura
del guerriero nei campi di battaglia,
è come un protervo denudarmi
in pubblico e mostrare le frattaglie
delle mie deplorevoli miserie.
meglio proteggermi e guardarmi
dal mondo vero e le sue macerie.
XXVIII
Come il Wakefield di Hawthorn sparisce,
si stacca da tutti senza motivo,
da casa e dalla moglie e furtivo
si chiude in una tana e non infastidisce
nessuno, vita sconosciuta a tutti,
creduto morto e avvolto nei fumi
d’un buco nero senza lumi,
così vorrei scomparire dai flutti
di un’esistenza assurda e senza senso,
perdermi per le strade e guardare,
come borges l’arco d’un androne
o la porta di un cortile immenso
che si apre sulla via del mare
senza un porticato e un portone.
XXXVIII
Sono parole semplici e serene
scritte e riscritte senza mai piacerti,
sono vani frammenti e lacerti
di una saga d’antiche cantilene,
che vivono nell’animo amare,
eppure basta un nulla a ridestarle
alla luce delle faci e narrarle
al caldo tepido del focolare
nei tempi d’una volta del natale.
sono nenie e lamenti arcani
mentre cade la neve boreale
e scende una nebbia leggera.
i bimbi sentono passi lontani
nei campi sepolti della brughiera.