dal blog di Marco De Giorgio
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sabato 16 novembre 2013
SANDRO PECCHIARI – “VERDI ANNI”
Ammesso che lo si debba proprio fare, non è affatto semplice definire, catalogare “Verdi Anni” di Sandro Pecchiari. Non si tratta infatti di una semplice raccolta di poesie più o meno saldamente o labilmente collegate tra di loro da un eventuale filo conduttore. La sua ripartizione in tre atti potrebbe richiamare una forma concepita per una qualche rappresentazione teatrale, e forse, a ben vedere, così effettivamente è, solo che il palcoscenico su cui deve tenersi tale rappresentazione altri non è se non, si passi la banalità del concetto, il palcoscenico della vita stessa. Il fatto stesso che “Verdi anni” sia poi concepito secondo un ordine tripartito, una sorta di “trittico” diacronico ci può poi rinviare a una gloriosa tradizione filosofica in cui a una tesi iniziale segue un momento di antitesi necessaria al raggiungimento finale di una sintesi conclusiva che comprenda i tre momenti come qualcosa di definitivamente inscindibile. Potrebbe sembrare forse azzardato il ricorso a un paragone che richiami il processo tripartito dialettico di cui si è appena detto, così come forse la citazione dei vari pensatori che hanno concepito, con le varie, opportune variazioni e distinzioni personali, da Fichte a Hegel in poi quindi (ma a tale proposito si potrebbe ricordare addirittura l’Aristotele del sillogismo), tale modello di sviluppo del pensiero e dell’esistenza nelle sue varie manifestazioni, se non fosse per il fatto che “Verdi Anni” ci ricorda in modo alquanto deciso tale forma di evoluzione e del pensiero e esistenziale, che prevede appunto un momento iniziale -tesi-, a cui segue un momento intermedio -antitesi-, per giungere infine alla conclusione -sintesi- finale del processo. Evidentemente ciascuno di questi tre momenti corrisponde a ciascuno dei tre atti in cui è suddiviso il “poema” (d’ora in poi per convenienza chiameremo così “Verdi Anni”) di Pecchiari.
Si è quindi, ancorché in modo forse inadeguato, definito “Verdi Anni” un “poema”. E del poema il libro di Pecchiari conserva, a nostro modo di vedere, l’intento e l’incedere epico, di un particolarissimo “epos” personale che procede dialetticamente, secondo lo schema tripartito di cui sopra e che nel nostro specifico caso potremo definire nel modo seguente: 1. Atto primo, ovvero “status” iniziale, 2. Atto secondo, ovvero “destructio” delle certezze e delle consapevolezze pregresse e infine 3. Atto terzo, ovvero “restitutio”, ovvero ricostruzione dalle macerie conseguenti alla distruzione avvenuta nella fase intermedia.
Il titolo stesso poi ci propone un rovesciamento ideale del topos classico “anni verdi” come prerogativa caratteristica della gioventù (si veda in tal senso la prefazione), rovesciamento in cui possiamo ravvisare il tema di un rinnovamento consapevole, di una ricostruzione “inversamente identica” dello status iniziale, tuttavia arricchito, inevitabilmente arricchito, da tutto ciò che è avvenuto nel corso del secondo atto. E’ quindi possibile, ancorché estremamente difficoltoso, complesso concepire la possibilità di una ricostruzione a seguito delle varie ineludibili intemperie a cui la vita sottopone ciascun essere umano. Intemperie che caratterizzano la “landa desolata” in cui ciascun essere umano prima o poi, per periodi più o meno prolungati, si trova a vivere.
E partendo dal concetto di “landa” va detto poi che l’autore utilizza non di rado una terminologia che richiama in modo più o meno evidente la geografia (si veda in tal senso il titolo stesso dell’atto primo nonché dell’atto terzo) con un particolare occhio di riguardo per il mare: possiamo tuttavia senza dubbio affermare che si tratta più che altro di una geografia, di una “mappatura” interiore, spirituale, che assume un reale, effettivo significato se vivificata dalla “parola”, parola che veicola appunto lo spirito, la vita, una sorta di respiro, di soffio, di “pneuma” quasi divino, e comunque vivificante. Non a caso nella prefazione ci viene detto come il termine “parola”, con le sue varie accezioni, sia il più diffuso all’interno del poema. A corollario di quanto appena detto va ricordato come il concetto di parola creatrice di realtà sia trasversale a un numero ingente di civiltà, di tradizioni, di religioni e via dicendo.
Va poi sottolineato come la parola venga declinata dall’autore in molteplici modi, a partire dall’utilizzo frequente di lingue e dialetti vari, e all’interno delle singole poesie e a partire dai titoli delle stesse. Gli esempi in tal senso sono decisamente numerosi.
Per la scrittura, per l’edificazione del proprio epos personale, quindi, è inevitabilmente necessario partire dal passato, visto e descritto in modi estremamente diversi e variegati:
…
voltarsi è vedere
una cartolina di decenni fa,
finta e buffa,
con un sorriso vecchio
su un mare tinto a mano
…
(“No Way Out”)
…
non eri un’isola
eri una nebulosa
(“Geografia di Fabrizio”)
Su tali premesse, su tali fondamenta è evidentemente alquanto difficoltoso anche solo concepire la possibilità di un’edificazione, tanto più che il futuro viene comunque visto con tinte fosche e minacciose:
…
e davanti ci sono
crepacci e orsi
e c’è tempo solo
per una valanga feroce
di parole chiare,
tenendoci per mano
davanti non c’è sorriso
che non sia di sangue offeso,
di tempo scaduto,
emozionato e sconfitto
(“No Way Out”)
Su tali instabili basi è decisamente difficile pensare a una possibilità di costruire qualcosa di solido.
Tuttavia il passato, con tutto ciò che è stato e con tutto ciò che ha comportato, deve essere accettato e compreso per poter rappresentare la possibilità di una rigenerazione futura. Va appunto “riconosciuto”, non va eluso. In tal senso è significativo l’utilizzo del latino, che conferisce un sapore arcaicamente e misteriosamente nobile, per una poesia che, a nostro avviso, veicola in modo particolarmente efficace quanto appena affermato e che è “Agnosco Veteris Vestigia Flammae” (“riconosco i segni dell’antica fiamma”), in cui il poeta ripercorre alcune fasi, alcuni episodi del suo passato con toni che non sarebbe errato definire epici:
abbiamo sciorinato trincee
e assalti all’arma bianca
e sentimenti affilati
per marcarci
strappando case e terre e parole
…
in quell’antica estate, ricordi,
offrivamo spavaldi le parole
d’una presentazione al tempio
da scolpire ancora
i nostri nomi scolpiti sull’architrave
della notte
…
(“Agnosco Veteris Vestigia Flammae”)
L’utilizzo del termine “vestigia” richiama altresì a qualcosa di ormai definitivamente passato, trascorso, estinto. Leggiamo infatti, nei versi conclusivi della poesia in questione:
ora tu vedi quel che resta:
una landa recintata e abbandonata
nello sbando divergente
del passato
in cui ci viene proposta un’atmosfera non del tutto distante dalla “Waste Land” di T.S. Eliot.
Anche ciò che del passato non si riesce ancora a definire, a comprendere (“sbando divergente del passato”) diviene oggetto quasi di accurato e affettuoso “recupero archeologico”, perché tutto ciò che appartiene al passato deve venir accettato, se non addirittura “santificato” (cfr. l’utilizzo onnicomprensivo che del termine “Holy” fa Allen Ginsberg in “Howl”), perché ciò che si è, e ancor più, ciò che si sarà, devono la loro ragion d’essere a ciò che è stato. E’ il passato a delimitare, a ridefinire i futuri confini della “geografia interiore” di ciascuno di noi. In tal senso non ci pare azzardato definire “Verdi Anni” come un “poema di formazione”, una specie di “Bildungsgedicht”. Anche in tal senso gli esempi concreti che potrebbero venir citati sono decisamente numerosi.
Viene quindi postulata la necessità di conferire valore, significato, anche, e forse soprattutto, a eventi passati che, al momento del loro verificarsi, risultavano decisamente indecifrabili, incomprensibili, oppure quanto meno banali, insignificanti. Si veda in tal senso l’intera poesia “Fine di partita”, in cui il poeta ci pare affermare che ogni evento, anche, appunto, quello apparentemente più consueto, comune, possono essere oggetto di poesia, di vera e propria “magia”. Non ci pare azzardato apparentare questa posizione al concetto di poesia come capacità di “making magic out of commonplace” (creare magia da luoghi comuni) come affermato da Gregory Corso.
Se si desidera avere una qualche prospettiva futura, con il passato, quindi, si deve venire a patti per poter ritornare “con cautela/ in questo mondo” (“Pace”), con “cauti passi ritrovati” (“Napoleonica”).
L’atto secondo è sostanzialmente incentrato sul tema del viaggio, del vagare, e infatti, non a caso, si intitola “Viandante”, che già di per sé veicola un significato di viaggiatore senza una meta “esteriore” ben definita, delineata. Non a caso verrebbe da dire che più che di “viaggiare” l’intero atto secondo postuli un concetto di “lasciarsi viaggiare”, del vagare in balia degli eventi, in quella fase, appunto, intermedia che prelude alla ricostruzione, alla sintesi conclusiva.
Vagare, quindi, ma pur sempre su una “Via Sacra” (ricompare il tema della santificazione onnicomprensiva), intesa come percorso che prevede la presa di coscienza, l’accettazione del proprio passato, visto come presupposto necessario per un processo di pacificazione con sé stesso e con il mondo, con l’umanità tutta e con la sua storia, in questo abbraccio disteso sui millenni (“Rinascita del Sole”).
Rinascere, quindi, ma per rinascere è appunto necessario recuperare, restaurare le “vestigia” del passato, premessa ineludibile, si è visto, di ogni eventualità futura, e in tal senso la presenza della statua equestre di Marco Aurelio (allora in restauro) nella succitata poesia è esemplare.
Sempre a proposito di un possibile accostamento al genere epico nella poesia “Pescatori” (professione di per sé già suggestiva in tal senso) si possono poi segnalare i seguenti versi, in cui si possono ravvisare degli accenni alla figura di Penelope e del mito del Minotauro:
…
il giorno tessono il futuro dei pesci
costruendo labirinti letali
…
(“Pescatori”)
Si era già peraltro accennato in precedenza come l’elemento marino sia particolarmente presente nell’intero poema. E mare ed epos si incontrano in “Neptun”, il cui titolo è già in tal senso esaustivo.
Il mare, tuttavia, assume molteplici e multiformi significanze, è correlativo oggettivo evidente di concetti archetipici come nascita, vita e morte, di estinzione e rigenerazione, di partenza e di approdo; il mare rappresenta infinite possibilità, il mare imprevedibile seduce e terrorizza, il mare rappresenta una minaccia imperscrutabile e letale, ma il cui richiamo risulta decisamente irresistibile, proprio in quanto elemento primo generante la vita e le sue infinite eventualità.
Ritornando brevemente all’immaginario mitico del labirinto e del Minotauro, verrebbe poi da pensare come il poeta voglia, accennando a queste due figure, affrontare i propri terrifici ed inquietanti “mostri” interiori, personali, in una battaglia in cui passato, presente e futuro coesistono in una simultaneità indistinguibile nei suoi elementi originali. In numerose poesie, specie nella seconda parte del poema, infatti, episodi appartenenti a un passato remotissimo, a volte addirittura mai concretamente vissuti, ovvero la più contingente quotidianità così come le aspettative rivolte al futuro si mescolano e si sovrappongono in un affascinante situazione di simultaneità.
Nessuna conquista, nessuna eventuale “vittoria” in tale guerra è da ritenersi comunque risolutiva e definitiva: la possibilità di perdere tutto ciò che si credeva come definitivamente ottenuto e la ricaduta nella precarietà sono sempre, costantemente in agguato: l’effimero più smaccato, infatti, può lasciare segni indelebili – cicatrice e tatuaggio- (“Biglietto d’autobus”). Ogni giorno, ogni istante può presentare istanze di rinnovamento, di ripensamento, di riconsiderazione conseguenti all’andamento degli eventi della “guerra” in corso.
L’atto terzo, come si è detto in precedenza, presenta ancora il termine “geografia” nel titolo (“Geografia di Sameh”). Questa volta, tuttavia, potremmo parlare di “geografia della ricostruzione”, o quanto meno di una volontà di ricostruzione.
Dopo il vagare c’è quindi l’ipotesi di un approdo, di un porto su cui concepire un’eventualità di ricostruzione, impresa da affrontare ancora una volta con un interlocutore, ma questa volta con la necessaria consapevolezza che l’esperienza, i “lunghi anni di pellegrinaggio” comportano e hanno comportato. Assieme all’interlocutore c’è ora la volontà, il desiderio di confonderci in un fiato solo (“Wiping my Years”), mettendo quindi al bando ogni forma di egoismo, narcisismo e così via, appunto “cancellando” ciò che potrebbe nuocere all’intento. C’è la volontà, dopo tanto vagare, di un “ritorno all’ordine”:
,,,
anche l’amore?
Anche quello
e il suo fluire
sta in una casella
dell’agenda
(“Ordine”)
E sarà il rituale liberatorio e d’auspicio di un brindisi (“Brindisi”) a suggellare tutto ciò, prima di intraprendere, a conclusione di questo viaggio tripartito, le necessarie operazioni di bilancio esistenziale in cui l’autore afferma di aver (e di essere) molto cambiato ma non di certo per ciò che riguarda il suo essere più intimo e caratterizzante: non ho cambiato l’anima (”Bilanci”).
Questa sorta di “trittico” poetico-esistenziale alla fine ci riporta in un qualche modo a dove eravamo partiti, all’inizio. Ma l’approdo, come si è avuto modo di vedere e come viene significativamente anticipato dal titolo, è “inversamente identico” al punto di partenza, nel senso che le varie esperienze vissute, il vagare, l’amare, il soffrire hanno fatto in modo che ci siano stati sì dei cambiamenti radicali, fondamentali, innestati tuttavia su ciò che v’è di fondamentale, sull’anima, che è invece rimasta, per ciò che riguarda la sua più intima essenza, comunque immutata.
Il poeta, in sintesi appunto, ci fa comunque capire che il viaggio valeva decisamente lo pena.
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