Tremùr su Poeti del Parco

 

 

da Poeti del Parco

 

 

Tremùr di Alberto Zacchi

“Dedicato a Carla/ e a tutti coloro che soffrono/ del morbo di Parkinson/ e a chi se ne prende cura”

Nella dedica, c’è tutta l’intenzione dell’Autore e il senso della sua raccolta; in particolare, dicendo “soffrire del” invece di “soffrire per” egli afferma l’unità malato-malattia, il percepire la malattia come parte di sé e non qualcosa di estraneo. È la reale alleanza terapeutica medico-paziente, oltre all’accettazione della nuova condizione esistenziale, indipendentemente dalla guarigione o meno.

“T’ire mai sintit numinà,/pò / t’hó ‘ncontrat/ e töt el gh’à tremat.” (Non ti avevo mai sentito nominare, / poi / ti ho incontrato / e tutto ha tremato.) “poi” è una parola, un verso, per definire il taglio temporale, lo scollinare dell’esistenza che diviene sempre più tremore.

L’io tremore vede e sente in movimento tutto ciò che tocca; il latte nella scodella diviene

mare, in un’immagine spontanea, evocata dall’aumentata sensibilità e non da un artificio poetico.

Anche le cose più semplici, atti ripetuti tante volte “El me cuser el sta/ nel’enfilsà la ucia.” (Il mio cucire sta / nell’infilare l’ago.) divengono impossibili, e la bravura di Alberto Zacchi è nella sintesi di un distico, che racconta sentimenti e vissuti; o nell’incastonare tra due versi – che esprimono il sentire di chi è malato – la spiegazione per chi “è sano” e sebbene possa essere di grande aiuto, non comprende la reale sofferenza dell’io-tremore l’è töt en trübülà/…l’è ‘n söghetà a desfà nel fa.” (È tutto un tribolare/…è un continuare a disfare nel fare.).

“Tremùr” è racconto corale e da differenti prospettive, per chiedere aiuto, vicinanza, ma anche nascondersi e tacere; per scambiarsi le bale, le bugie,che non riparano le calze bucate, ma almeno riempiono le giornate; è il sentirsi engarbiacc, ingarbugliati nel ripetere azioni e gesti consueti e quasi automatici. Uomini e donne scesi in un nuovo versante esistenziale, posto dopo la misura spaziotemporale del poi.

Poi ci penseranno gli altri, e il dolore più grande sarà il sentirsi asciugare, pulire, sentirsi guardare nella propria nudità e intimità. Poi, si romperà l’equilibrio, non ci sarà più il vivente malato, ma solo la malattia vestita di un corpo e forse almeno la testa resterà al suo posto “…almanc el co/ al sò post,”

Non è facile descrivere così minuziosamente la sofferenza legata ad una malattia devastante, senza cadere nel compianto, senza esprimere le ovvietà di chi sta “fuori” del Parkinson.  Zacchi lo fa in poesia, nell’accostarsi, farsi prossimo; togliendo il superfluo, lascia il necessario a raccontare il dramma, senza amplificarlo. Si sofferma su ogni singolarità della vita quotidiana, dando voce al tornare bambini, ma senza un domani per crescere e imparare; al sentirsi toccati, manipolati, ma non accarezzati; al vedersi e sentirsi di cemento, “e il sentimento / rimane prigioniero / tra pelle e pelle.”

Pian piano voce, odori, movimenti, scrittura, tutto si perde. Nel vuoto che resta, solo il “grazie” della relazione può riempire e impedire la disperazione; in sé, in quel vuoto, sta nascosta – chiusa – la verità: “tra lü e se stes/ che sta sarada/ la verità”.

Maurizio Rossi

 

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