Gabriella Musetti, Un buon uso della vita, Samuele editore 2021, prefazione di Chiara Zamboni
“D’accordo: non vale niente./ È meno del fumo/ assai meno del vino./ Ma uno non può morire/ senza un briciolo di poesia”, si legge nella citazione esergo di Pieraldo Marasi. Con questo presupposto Gabriella Musetti, nella prima parte della sua raccolta, ci presenta una folta schiera di donne anonime scomparse, e non può mancare al lettore un immediato rimando a Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters.
Queste le parole di Fernanda Pivano, che aveva tradotto Masters e lo aveva proposta a Cesare Pavese: “…la semplicità scarna dei versi di Masters e il loro contenuto dimesso, rivolto ai piccoli fatti quotidiani privi di eroismi e impastati soprattutto di tragedia, erano una grossa esperienza[…]In questi personaggi che non erano riusciti a farsi “capire” e non avevano “capito”, dal loro dramma di poveri esseri umani travolti da un destino incontrollabile, scaturiva un fascino sempre più sottile”.
La Musetti raccoglie figure femminili soltanto, donne sorprese dalla morte nel mezzo della loro giornata o nella notte: chi sta fumando una sigaretta, chi siede alla cattedra davanti alla classe, chi si trova tra la folla del supermercato, chi va a prendere la figlia a danza, chi si sta truccando davanti allo specchio, chi sta prendendo un caffè, chi scende le scale…Vite interrotte all’improvviso, anche in piena giovinezza, una violenza inattesa che lascia un senso di smarrimento e alimenta la sensazione di precarietà del vivere, rafforzando il disagio esistenziale e lo spaesamento che stiamo vivendo nella situazione pandemica che ci perseguita.
Ma non rimane questa precarietà come tema di fondo, perché l’elenco delle donne scomparse scopre la fatica di esistere ed il dolore non palesati: “era morta di notte/tra le botte della sera e quelle del mattino”. Denuncia la fatica del vivere e sopportare, tanto che si comincia a morire – dentro – molto prima che l’evento avvenga: “era stata un morte protratta/iniziata tempo addietro”; talora si è vissuto consumate da sensi di colpa per una gioia rubata, o si è riconosciuta troppo tardi una sofferenza che ha portato alla morte “mangiandosi di dentro”.
La morte le ha colte prima che la vita le risarcisse, senza dare loro le cose belle e le sincere relazioni a cui anelavano, lasciandole a metà come persone irrisolte. Chi è stata “ardente e generosa” non ha neppure avuto la consolazione del pianto: “lei era morta senza compianto”.
Probabilmente anche loro non erano riuscite a farsi “capire” e non avevano “capito”, come dice la Pivano.
Marisa Cecchetti