Quella di Gabriella Musetti è una parola essenziale, attenta allo scavo semantico ed umano, che circoscrive con pochi rapidi tratti la densità universale dell’esperienza, della felicità e dell’afflizione; che intreccia le dinamiche di amore e morte – motore originale della sostanza poetica – con un movimento leggero, e allo stesso tempo capace di lasciare un’impressione esatta, profonda e materica; capace di suscitare, infine, una riflessione sulla sensibilità e sul femminino che può estendersi all’esistere di chiunque abbia avuto (o ha) familiarità con quella gioia dello sparire per amore che compone un assoluto accogliere l’altro, la persona amata, dimenticando il sé.
Certo l’evento di per sé (“lei era morta / per amore”) non può che nascere da una realtà terribile, che la parola in primo luogo denuncia ed espone doverosamente all’attenzione del lettore; ma l’occasione di quel sentire inevitabilmente si fa allegoria e preciso ritratto del sentimento (“insaziabile incontenibile si disperdeva / senza cercare cura di sé”) della cura dell’altro da sé, dell’oggetto del proprio amore, sentire enorme e sufficiente a riempire chi, vuotato di sé, decide di accoglierlo, pur nella drammatica narrazione della propria fine violenta (“spariva spariva contenta rideva”).
L’attenzione dell’io del testo, “narrante”, in senso ampio, al dettaglio della storia di ognuno, è evidente nei primi versi selezionati (“le storie sono all’inizio / tutte uguali … ma subito la storia cambia / secondo il luogo lo status / il modo e l’accoglienza”), alludendo, con lucidità, alle ingiustizie e alle difficoltà terribili in cui è possibile precipitare per puro caso, e alle differenze che dal momento stesso della nascita in modo del tutto arbitrario colpiscono ciascuno di noi; “ognuno trova a caso la sua stanza / chi bene – felice lui o lei – chi / con dolore”: sembra quasi trovare spazio l’idea di un fatalismo esistenziale, in queste poche parole, che ritraggono la possibilità di una quantità variabile di gioia e di dolore destinata ad ognuno, da cui è difficile – o impossibile – sottrarsi.
Dove allora il “buon uso della vita” che dà il titolo alla silloge che accoglie questi componimenti? Una possibile risposta potrebbe essere nella volontà ostinata che rende liberi, di quella “libertà che cambia il segno”, capace di modificare la “curvatura del reale”; in questo modo si può esperire il tentativo, necessario, di riappropriazione della realtà, dove “i corpi di esperienza” (l’accenno alla realtà materiale e corporale è un altro tratto della lucidità concreta del dettato) “raccontano la verità / ciascuno / della propria vita”, la cui traccia può essere di esempio e di orientamento per la vita di tutti.
Mario Famularo
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