Come suggerisce la stessa autrice nell’interessante nota conclusiva, il termine di paragone più istintivo e naturale per iniziare a descrivere Un buon uso della vita (Samuele Editore), la più recente raccolta di Gabriella Musetti, potrebbe venire rappresentato dalla Antologia di Spoon River. Certamente una similitudine esiste, ma essa è superficiale: a Gabriella Musetti sembra infatti interessare la composizione di un mosaico di vite molto più che quello di un mosaico di morti, laddove la morte stessa è quasi un pretesto per volgersi indietro, guardare quanto accaduto fino a lì, descrivere non la fine in sé ma il percorso, le debolezze, le mancanze, le indecisioni di una serie di donne. Va specificato, infatti, che stiamo parlando di un universo unicamente femminile e quindi anche l’osservazione della morte e soprattutto della vita avviene dal medesimo punto di vista: non una poesia femminile, ma una poesia sulle donne e dalla prospettiva delle donne all’interno di una società che appare ancora sbilanciata in senso patriarcale, in cui la figura femminile accade fin troppo spesso che venga messa da parte, sottomessa o idealizzata.
Davanti a questa realtà le donne raccontate da Gabriella Musetti sono colte nell’ultimo istante, in quello in cui si dice che tutto il passato scorra davanti agli occhi: ma lo scorrere acquista la lucida asciuttezza di una scrittura essenziale e misurata, incline ad una partecipazione emotiva ma lontana da ogni forma di pietismo, talvolta disarmante nella sua lucida ironia. Altre donne, scrittrici (ad esempio Amelia Rosselli o Marina Cvetaeva), vengono fotografate nel loro rifiuto concretizzatosi in un gesto di ribellione estrema e definitiva che però non è l’unico possibile, in quanto altre donne “frugano dentro sé / una ragione / dello stare al mondo”: queste pagine sono contemporaneamente un gesto di riconoscenza verso alcune personalità che sono state “luogo di pensiero e di trasformazione per tutte le altre” (cito nuovamente la nota finale dell’autrice), ma soprattutto termine di paragone per tutte le altre donne che, pur senza il privilegio di un nome celebre, onorano e hanno onorato la propria esistenza, si sforzano cioè di fare un buon uso della vita, come recita il titolo della raccolta. Una raccolta che quindi non è una Spoon River, non si rivolge a ciò che è stato, ma mi sembra che piuttosto abbia occhi e sguardo e sensibilità ben piantati nel presente, in quella “curvatura del reale” dove “i corpi di esperienza / raccontano la verità / ciascuno / della propria vita”.
Francesco Tomada