In un ampio articolo su Eppen (L’Eco di Bergamo) del dicembre 2021, Chiara Donizelli esordisce con l’intenzione di non scindere il vissuto di Candelaria Romero dalla sua produzione poetica. Confermo la necessità di sottolineare quanto siano veri e concreti non solo il contenuto, ma la forma stessa, in coerenza con il respiro di verità dell’autrice, la pienezza della sua persona.
Nata in Argentina da genitori intellettuali (il padre giornalista e scrittore, la madre ricercatrice universitaria) ed entrambi poeti, a tre anni Candelaria li segue sulla via dell’esilio a seguito del colpo di Stato militare del generale Jorge Videla del 1976 e della conseguente dittatura. Cresce e si forma in Svezia, terra di asilo, dove si diploma in teatro presso il liceo “Södra Latin” di Stoccolma. Conclude la propria formazione a Bergamo, dove vive tuttora, continuando a occuparsi di teatro, scrittura, poesia.
L’esilio quindi e i trasferimenti in territori anche linguisticamente distanti hanno improntato la costruzione della sua dimensione esistenziale, il suo concetto di “dimora” e Candelaria ha imparato a trovare in sé stessa e negli affetti familiari la prima costante, le matrici del pensiero. Ha imparato a riconoscere i segni della Storia. Chi vive una vita stanziale trova continue conferme del proprio esistere e delle proprie radici negli oggetti – vi si lega, si impiglia -, nella rassicurazione della casa, nelle strade di quartiere. Lei ha dovuto selezionare ciò che parla, riconoscere prima sé nel caos della vita che sé nelle cose. Ha potuto provare quanto una ragazza possa autoaffermarsi come elemento del mondo, a prescindere dalle relazioni con alcuni elementi radicali e collocarsi in armonia con le proprie attitudini.
Le quattro raccolte finora pubblicate tracciano volutamente un’evoluzione cronologica che Romero tiene a saldare e riproporre quando parla di ogni singolo volume, ben conscia che le manifestazioni di sé siano una risultante. La prima silloge, Poesie di fine mondo ha il respiro di un’ansia emergenziale, del sovvertimento; Salto mortale vive la consapevolezza del passo lungo, dello spostamento come sfida; Abitare già contiene molti elementi di quest’ultima raccolta e costruisce casa. “Casa” compare spesso in Un uccello ha fatto il nido nella mia testa (edito dalla Samuele Editore quest’anno – “Case” è anche il titolo della prima sezione di Abitare), ma non presenta solidi muri maestri, strutture portanti: ha più aperture che pareti e direi che le pareti sono attraversabili. La delusione e i colpi ripetuti che sviluppano il “nido” pascoliano sono già stati vissuti e superati, l’autrice traccia la via della conciliazione con il male esteriore che si fa interiore, con la constatazione della realtà dei fatti, i “mostri” familiarmente protagonisti di alcune riuscite e vivaci composizioni cui accenno in seguito. Nella casa di Candelaria il dentro si sfrangia nel fuori, tanto che anche il bosco è simbolo di casa (“Bosco” è il titolo della seconda sezione di “Abitare”). Il bosco, si badi bene, non il cortile, la strada, ma l’elemento selvatico (lemma frequente in posizione chiave). Le stanze sono teatro di relazioni, le stanze sono da pulire, da spolverare quasi in dialogo; la selva è luogo di espansione e espressione dell’Es, del dionisiaco. Le case e le finestre “parlanti” di Umberto Fiori qui fanno sporgere dai davanzali racconti privati di decine di condòmini a un albero, cresciuto al centro di un grande caseggiato; ancora l’elemento del bosco che entra in dialogo con la sfera più intima dell’uomo e conserva il segreto.
Camilla Ziglia
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