Un’intervista a Francesco Tomada su Atelier

 

 

Da Atelier

 

 

MB – Affrontare la gioia da soli (Samuele Editore-PordenoneLegge, 2021) si apre con una poesia in cui, dopo aver rivolto lo sguardo a un uomo che torna in una casa dove “ad aspettarlo c’è una solitudine più grande / rispetto a quella di adesso”, si chiede insistentemente ad una seconda persona di restare vicino: “ma tu / tu stringimi la mano”. Il libro si snoda poi in altre sezioni, tutte popolate da altre persone, una varia umanità che va dagli ubriachi ai membri della famiglia, e si chiude con l’ultima poesia che dà il titolo alla raccolta: “vediamo se sono cresciuto abbastanza / per affrontare la gioia da solo”. Mi sembra si possa quasi parlare di crescita dell’io durante tutto il libro, quasi un romanzo di formazione che passa tramite gli altri per tornare, alla fine, a una solitudine che non è mai tale. È una interpretazione plausibile?

FT – Ogni interpretazione di chi legge, se si approccia – come in questo caso – alla poesia di un altro con rispetto e curiosità, è plausibile: la poesia nasce tanto da chi la scrive quanto da chi poi la fa propria. Quello che posso dire, per la “mia parte” di scrittura, è che per me ogni raccolta è frutto di un percorso personale, racconta quello che ero, che ho attraversato, che sono diventato, e quando ci riesco volge lo sguardo anche alle persone che ho incontrato, che mi sono state e mi sono vicino. Mi piacerebbe poter parlare di crescita ma non so proprio se sia così, non sono affatto sicuro di essere un uomo migliore adesso di dieci anni fa perché la nostra esistenza non ha una sola direzione, si va avanti e indietro, si sbanda. Temo che non esista una maturità, insomma, ma solamente un equilibrio che può essere accettabile “oggi e qui” ma non è detto che lo sarà anche domani.

In alcuni momenti sono un animale decisamente sociale mentre in altri tendo a mettermi in disparte, tenendomi stretto alle persone a cui voglio bene davvero, che nella vita sono necessariamente poche perché credo che un uomo non abbia una riserva di affetto e attenzione infinita da poter donare. E comunque, per potersi rapportare agli altri, mi pare che si debba venire a patti con se stessi – non dico trovare una serenità che vedo difficile -, cercare un equilibrio con la propria solitudine. Forse il libro parla di questo, ma tu lo hai visto più chiaramente di me.

MB – “Quella maglietta dell’Original Marines / che avevo messo nel sacco per la Caritas / l’ho vista oggi indosso a un rifugiato / era in mezzo ad un gruppo dove tutti / scherzavano e ridevano forte / e anche lui rideva // un altro me / però felice”. “Quando sono andato a raccoglierla da terra le mie mani sono entrate dentro al suo torace, // Nura mette i piatti sporchi nel lavello e sorride silenziosa”. Ho citato questi due brani da due poesie della seconda sezione del tuo libro perché, in entrambe, avviene un cambiamento di stato emotivo tramite il mezzo di un oggetto, quasi a livello metonimico: la maglietta tiene insieme il rifugiato felice e te “non felice”, i piatti da lavare portano le mani ad essere quasi pulite dal sangue di cui si erano macchiate. Queste sovrapposizioni o, mi verrebbe da dire, dislocazioni del dettaglio oggettuale, mi sembrano fondamentali per la comprensione del meccanismo della tua poesia in questo libro, quasi come il singolo dettaglio venisse inserito in vari contesti, reso meno solo…

FT – Spesso la poesia – mi viene da dire non la “mia” poesia, ma la poesia in generale – prende origine da un oggetto, un gesto, un’espressione e riesce a indagarne il non-detto. Quando questo accade è davvero il regalo di uno sguardo che seziona il reale e permette di entrarvi più in profondità: a volte questo si accompagna alla meraviglia che è una forma di bellezza, ma più spesso, almeno per me, è stato anche un momento di sofferenza o di rabbia. Ricordo che, quando iniziavo a occuparmi di scrittura, quindi parecchio tempo fa, mi ero costruito l’immagine della poesia come un taglio di quelli che ci si fa a volte in modo inavvertito con il bordo di un foglio di carta, che ti rivela la tua stessa pelle attraverso il dolore. Si tratta sicuramente di una visione abbastanza adolescenziale, lo so, ma devo ammettere che in fondo la mia prospettiva non è troppo cambiata. Del resto è il medesimo sguardo che cerco nei poeti che amo e che mi generano dentro quell’ammirazione tale da pensare: ecco, se lui o lei ci è arrivato la prossima volta posso provarci anche io, grazie, mi avete insegnato qualcosa. E non parlo soltanto di scrittura, ma di un modo di porsi davanti all’esistenza.

Un’intervista di Michele Bordoni

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