Vernalda Di Tanna su Breve inventario di un’assenza


 
 
da Laboratori Poesia
 

Breve inventario di un’assenza, Michele Paoletti (Samuele Editore 2017, collana Scilla, prefazione di Gabriela Fantato).

C’è un aforisma, scritto nel 1901, in cui Oscar Wilde affermava che «L’eco è spesso più bella che la voce da essa ripetuta» e se esiste un libro di poesie al quale tale frase calza a pennello, sarà senz’altro l’ultima silloge di Michele Paoletti: Breve inventario di un’assenza (Samuele Editore, 2017), che si scinde in tre sezioni (La terra intatta; Inventario; Muri). In ognuna di esse, tra un luogo ed un altro a far da sfondo, spicca, in un paesaggio che sembra un trompe-l’oeil, l’assenza, personificata grazie a vari elementi: “ascolto gli oggetti respirare da lontano/ l’aria che muovono i ricordi/ quando si staccano da noi”. Questa predisposizione è ravvisabile già da una delle precedenti raccolte, Come fosse giovedì (puntoeacapo Editrice, 2015), raccolta dal tono altamente simbolico, in cui Paoletti scriveva:

 
Cinque lampadine non schiariranno la distanza
che spacca la geometria dei nostri corpi,
cova sotto le lenzuola la ferita
perfetto nascondiglio del segreto
uovo sepolto nel fondo del baule.

 

La distanza subisce una trasposizione per cui, nel breviario, si rende assenza. L’assenza è l’eco che declina, attraverso uno sguardo semplice e sofferto, il vivido senso di perdita. La perdita di una persona cara, come può essere quella di un familiare, è un segno, una cicatrice inguaribile della quale il poeta, pur tentando di reagire, continuerà a ravvisarne sia il dolore che la presenza ovunque, perché la quotidianità ne è pervasa e “la pelle/ non dimentica il coltello”. Il ricordo anima gli oggetti appartenuti alla persona assente, elencati in modo sorprendentemente attento e lucido (ma non per questo freddo), li rende gli attori di un dramma pacato, delicato, come può esserlo quello delle stagioni che condensa ed esplode durante l’autunno, quando “marciva il tavolo in giardino/ la plastica dei vasi si spaccava/ in minuscole foglie triangolari./ Ottobre era un viale illuminato,/ una canzone sepolta nella terra”. In tal senso, la memoria, facendo il verso all’infanzia del poeta, personificata dalle radici, può abbattere i muri eretti dall’assenza, dalla distanza invalicabile che oppone i vivi agli oggetti e che gli accomuna, invece, agli elementi naturali (“il mondo vive/ nelle foglie mute, nel ricordo/ della terra intatta”). Un testo lancinante, in cui ritornano il tema del nascondiglio, del duplice e della ferita è il seguente:

 
La luce inonda il corridoio
e scopre le piaghe che la casa
nasconde agli occhi
persi nello specchio
a indovinare quante pieghe< del mio viso ti appartengono.  Ciò che resta è.

 

Mirabili alcuni passaggi che suggeriscono un’influenza luziana e caproniana. Dopo tutto, ciò che resta sono i muri, una mela sul tavolo, un grumo d’asfalto, le foglie, il pane, le foto, la luce “che scopre le piaghe” in “questo buio che sconfina intorno”, ma più di tutti è la terra, come fosse un muro essa stessa, a restare intatta sotto sguardi che provengono da “volti imprigionati/ nella distratta felicità/ di chi si acciuffa un attimo/ sperando di imbrogliare il tempo”.

 

Vernalda Di Tanna

 
 
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